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venerdì 18 maggio 2012

… e così nacque il Governo di Mario Monti

genesidi Sandro Bondi
Chi voglia capire quello che è accaduto in Italia con la formazione del governo Monti, nel quadro della crisi economica che colpisce tutta l’Europa, deve assolutamente leggere l’ultimo libro di Giulio Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica (editore Guerrini e Associati). Sulla base della mia esperienza diretta di membro del governo Berlusconi e di dirigente del Pdl non posso che confermare l’analisi di Sapelli.
La griglia interpretativa fondamentale di questo saggio è, storicamente, il rapporto tra nazionale e internazionale, tra nazione e questione internazionale. Sapelli cita Helmut Schmidt per ricordare che la “democrazia cristiana ha tradito il messaggio dei suoi padri fondatori e ha posto la Germania prima dell’Europa e non l’Europa prima della Germania”. L’unificazione tedesca del secondo dopoguerra del Novecento rappresenta, secondo Sapelli, “il ritorno dell’assoluto nella storia europea: un assoluto conflittuale e non pacifico, anche se solo - fortunatamente – con le armi dell’economia”. Al disegno di Kohl, che voleva l’unificazione della Germania, la Francia di Mitterand e l’Italia di Andreotti opposero l’euro, “per tentare di amalgamare il blocco tedesco nella pozione bollente del brodo europeo”.
L’esperienza successiva ha dimostrato però che l’euro è divenuto “una sorta di rete che imprigiona e impaccia in ogni movimento tutte le nazioni europee, sotto l’usbergo di una banca centrale tedesca piuttosto che europea”.
L’origine della crisi sta tutta qui: in moneta unica e in una burocrazia europea costruite su misura degli interessi della Germania a scapito delle economie più deboli, oltretutto in mancanza di uno spazio di governo politico che contempli la pari dignità degli Stati membri.
Rispetto a questo quadro generale, Giulio Sapelli individua con esattezza la ragione per cui, durante il governo Berlusconi, si spezza il nesso tra nazione e internazionalizzazione. Questo nesso si spezza perché il blocco sociale rappresentato dall’alleanza di centrodestra è il più “antitedesco” che si possa immaginare.
Con il governo Berlusconi si allarga la forbice tra la macro rigidità monetaria, imposta all’Europa dal modello e dagli interessi tedeschi, e la micro-flessibilità dell’economia reale, rappresentata dalla specificità e dal dinamismo dell’economia italiana. L’Autore mostra molto bene come Berlusconi cerchi di uscire dalla tenaglia dell’egemonia tedesca, con tre “magistrali operazioni”:
il legame organico con la destra repubblicana nordamericana;
il legame con la Russia di Putin; il legame con gli stati dell’Africa del Nord;
l’alleanza con la Francia.
Anche a prescindere dal venir meno di alcuni di questi ancoraggi politici, Sapelli sottolinea il ruolo negativo svolto dalle “bizzarrie” di Giulio Tremonti (“fiduciario della signora Merkel”), che, anche sulla base della mia esperienza, risulta effettivamente essere stato uno degli elementi di maggiore debolezza della strategia perseguita da Silvio Berlusconi sul piano interno e internazionale.
Rispetto a questo scenario, Monti entra in scena, secondo il modello costituzionale del “dictator” della storia romana, in quanto rappresentante di un blocco organicamente europeo: grandi banche, grandi scuole internazionali di business, grandi società di consulenza.
Le valutazioni finali di Sapelli sono tanto lucide quanto allarmanti: l’intrinseca debolezza di Monti deriva proprio dall’essere rappresentante di questi interessi “organicamente europei”; la politica appare stremate e perciò incapace di opporsi al potere misto tecnocratico-parlamentare emerso dalla crisi internazionale; la soluzione della crisi potrebbe venire solo dalla capacità di rinegoziare il trattato di Maastricht e lo statuto della Banca Centrale Europea allo scopo di ampliare le aree di micro flessibilità nazionali e di ridurre tutto quello che è possibile della macro-rigidità monetaria sovranazionale; infine l’angosciata convinzione secondo cui non è escluso che l’era delle dittature europee sia chiusa per sempre!

mercoledì 16 maggio 2012

Quattro scenari per Italia ed euro. Viva Herbert Spencer, e il suo aureo libretto

herbert-spencer-1Purtroppo, il caos monta ancora. La politica europea mette in scena in queste settimane una bizzarra coincidenza. I guasti dell’euromeccanismo non sono affatto rappresentati dal rigore “imposto” dai tedeschi, come oggi si grida. Bensì dal fatto che al necessario rientro delle finanze pubbliche più squilibrate non sia stato affiancato un tangibile strumento di cooperazione tra euroforti ed eurodeboli, appianando nel tempo gli squilibri nelle bilance dei pagamenti e unendo i mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, cosa che inevitabilmente alzerebbe la quota di reddito e prodotto procapite a favore degli eurodeboli a minor costo (è un meccanismo che varrebbe per gli “altri” eurodeboli, non per l’Italia ma questo è un altro paio di maniche, la colpa del massimo salario lordo in presenza del minimo netto è del nostro Stato, non dell’euro).

In tale situazione, la coincidenza bizzarra alla quale assistiamo è quella tra illuminati – o sedicenti tali – e pazzi furiosi.Gli illuminati o sedicenti tali – da monsieur Hollande a Frau Kraft in Renania del Nord-Westfalia, dal leader greco di Syriza Alexis Tsipras a tutti i capipartito italiani, da noi non c’è differenza in questo tra vecchia destra e vecchia sinistra – brindano al santo ripudio del rigore, espresso dalle urne e dalle vittime sociali della crisi. Ma propongono spesa pubblica, non dicono ai loro elettori che per difendere l’euro occorre unire i mercati e che tutti accettino più concorrenza a casa propria del famigerato – ricordate l’abortita direttiva Bolkenstein? – “idraulico placco”.
Con questo atteggiamento, checché dicano i media al servizio delle élite stataliste, la loro ricetta è identica a quella che gonfia le vele di leader e partiti populisti antieuropeisti e nazionalisti, si tratti di Marine Le Pen e di Melenchon in Francia, del Partito della Libertà in Austria come in Olanda, o di Alba Dorata in Grecia, o di Jobbik in Ungheria.

Dal punto di vista iper-minoritario della mia scuola austriaca, si avvera un triste presagio inascoltato di grandi europei del secolo scorso, come Röpke e Hayek. Nessuno di loro negava la base e il valore di schemi assicurativi sociali pubblici che hanno costituito i pilastri del welfare moderno. Semplicemente ed energicamente, mettevano però in guardia dall’eccesso incrementale insito in ogni macchina pubblica autoreferenziale, esclusa da indici verificabili di produttività e sostenibilità nel medio-lungo periodo. I rischi di un’estensione incontrollata del bilancio pubblico sarebbero stati di un duplice ordine: per il peso delle tasse, e per la stessa libertà.
E’ puntualmente avvenuto. Ma dopo decenni di continua crescita della spesa corrente a cui la politica ha adeguato le tasse solo con strappi diluiti nel tempo, quando il deficit andava fuori controllo e il debito pubblico esplodeva, oggi in Italia innanzitutto e insieme in mezza Europa risulta difficile alla politica ammettere che la colpa è tutta sua. Si preferisce prendersela ad arte con un nemico esterno. L’intransigenza tedesca si presta purtroppo bene alla bisogna.

Rileggiamo quanto scriveva Herbert Spencer, dalle cui Social Statistics - probanti l’avanzamento del reddito anche per i ceti più bassi nel regime di libero mercato e concorrenza – Alfred Marshall derivò la base materiale dei suoi Principi di economia, che a tutt’oggi bastano e avanzano per respingere ogni pretesa di fallimento intrinseco del capitalismo: “Misure di tipo dittatoriale, in rapida moltiplicazione, hanno provocato una contrazione delle libertà individuali; e questo in due modi. Nuove norme, varate in numero crescente ogni anno, hanno vincolato i cittadini in direzioni lungo le quali, un tempo, le loro azioni non erano state limitate, e li hanno forzati a compiere azioni che un tempo potevano fare o non fare, come a loro aggradava; e contemporaneamente oneri pubblici sempre più rilevanti, soprattutto a livello locale, hanno ulteriormente ristretto le loro libertà diminuendo la parte dei loro guadagnai che possono spendere a loro piacimento e aumentando quella che viene loro sottratta per essere spesa come piace alle agenzie pubbliche”. Il libro da cui è tratto si intitolava programmaticamente The man versus The State, cioè L’uomo contro lo Stato, ed era il 1884.

Alla domanda “come vedi l’exit strategy per l’euroarea in questo nuovo casino?”, Bracy Bersnak, liberale a tutta prova che insegna al Christendom College a Port Royal, nella valle dello Shenandoah in Virginia, ha risposto in un modo secco e chiaro, che condivido integralmente.

Ci sono quattro alternative, che possono anche naturalmente mischiarsi e sovrapporsi tra loro.
La prima via è quella dell’austerità volontaria. Ci sia l’euro o meno, le finanze pubbliche nazionali vanno rimesse in linea secondo il principio della più bassa spesa socialmente efficiente compatibile con un fisco più leggero, favorevole alla crescita. La via seguita dalla Polonia fuori dall’euro, dai Paesi baltici Estonia Lituania Lettonia. Occorre una forte e motivata leadership politica, per reggere alla protesta che si scatena prima che i benefici della maggior crescita si manifestino.

La seconda è quella dell’austerità imposta. Fino a questo momento, quella imposta da Bruxelles e Berlino non si mostra capace di consensi. Ma poiché se la Grecia esce dall’euro l’uscita di altri eurodeboli non è questione di giorni ma di mesi, allora bisogna stipulare un nuovo euroaccordo capace di unire il vincolo esterno a un meccanismo cooperativo tra eurodeboli ed euroforti. Tradotto: se esce l’Italia la Germania ci perde troppo, e bisogna negoziare su questa base.

La terza è la via del ripudio dei debiti. Chi volesse seguirla, deve sapere che la botta per redditi e patrimoni è bestiale. Può essere obiettivo di forze antisistema che mirino ad addossarne la colpa a chi ha governato prima, per tagliargli sotto i piedi ogni possibilità di consensi futuri. Ma esporrebbe comunque ciò che resterebbe dell’euroarea a fughe di capitali e attacchi speculativi che non risparmierebbero la Francia, per dirne una.

La quarta via è quella dell’impotenza. Nuovi ribaltamenti di governi oltre a quelli già avvenuto in due terzi d’Europa, nuovi rinvii di decisioni invece indilazionabili.

La via preferita da chi qui scrive per l’Italia è la prima. Ci sia l’euro, oppure no. La nostra spesa pubblica e il nostro fisco rendono la loro difesa improponibile, da un punto di vista logico. Ma sinora, nella stanza dei bottoni italiana o meglio in quel che ne resta,destra sinistra e tecnici l’hanno sempre pensata diversamente.

Oscar Giannino
www.chicago-blog

sabato 12 maggio 2012

Hollande taglia i costi della politica in tre giorni. Bravo, ma il presidente francese ha i poteri che la sinistra non vuole riconoscere ai presidenti italiani

costiNon ha fatto neanche in tempo a finire la bottiglia di champagne, che il nuovo Presidente francese Hollande già prende le forbici e taglia i costi dei politici e dei dirigenti pubblici. A cominciare da se stesso.
Un decreto ridurrà del 30 per cento gli stipendi del capo dello Stato, del primo ministro e dei membri del governo. E non basta: Lo accompagnerà un secondo decreto, con il quale sarà stabilito un tetto alle remunerazioni dei dirigenti del settore pubblico.
Hollande ha infatti deciso di fissare una regola: la forbice salariale dovrà essere compresa fra 1 e 20. Per essere più chiari: un presidente e amministratore delegato di un’azienda pubblica non potrà guadagnare più di venti volte del suo dipendente meno pagato. Una roba tremendamente comunista. Tutto ciò, mentre il nostro governo prova oggi a far rientrare dalla finestra le pensioni d’oro dei manager appena uscite dalla porta e ancora si attende il decreto per l’adeguamento degli emolumenti dei dirigenti a quello del Presidente di Corte di Cassazione.

martedì 8 maggio 2012

La politica, in una democrazia liberale, non è «prendere o lasciare», ma rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Per questo Alfano ha ragione

Braccia di ferroCon lo Stato che esige subito le tasse - anche quando ha torto: paga e poi si vedrà se hai ragione (solve et repete) - e onora i suoi debiti con annidi ritardo, e di fronte ai sempre più numerosi suicidi, il rifiuto del professor Monti della ragionevole (civile) proposta Alfano di poter scalare dalle tasse (dovute) i crediti (pretesi) rivela un totale disprezzo dei diritti dei cittadini. Ci volevano dei non eletti per dimostrare che un governo che non debba rispondere agli elettori è automaticamente dispotico. Altro che «democrazia sospesa»; qui siamo in pieno autoritarismo, mascherato da efficientismo, che sta distruggendo quel poco di democrazia liberale che c'era.

Confesso che, conoscendolo come persona intellettualmente onesta, ed essendogli amico, mi ero illuso che il cattolico-liberale Monti, se non proprio propenso a far prevalere l'umanesimo cristiano sulla (disumana) Ragion di Stato - che, peraltro, è teoria di un cattolico (Botero) - fosse almeno incline a ricordarsi di essere liberale. Invece, per dirla con lord Acton, «se il potere corrompe, il potere assoluto (incontrollato) corrompe assolutissimamente». Ho l'impressione che questi professori si prendano un po' troppo sul serio nel ruolo di «salvatori della Patria» e tendano a comportarsi con i cittadini come, probabilmente, si comportavano con i propri studenti.

La politica, in una democrazia liberale, non è «prendere o lasciare», ma rispetto (costituzionale) dei diritti e delle libertà individuali, nonché delle minoranze. Ma qui chi controlla? Non lo fanno i partiti in Parlamento, ormai supini - per incultura, debolezza e provincialismo - «a quelli che sanno». Non i media - che dovrebbero legittimare l'Ordinamento esistente, ma anche fornire al cittadino gli strumenti per capire e giudicare - e sono una sorta di neoMinculpop: «il Duce ha sempre ragione»; anche se Monti non sempre ce l'ha. Non un'opinione pubblica frastornata cui è stato fatto credere di essere in guerra - contro lo spread - le si nasconde che questo governo non è «la soluzione», ma sta diventando «un problema», e inclina verso un «fascismo di popolo».

Sono rimasto il solo a dirlo e mi spiace ripeterlo: è, nelle parole di Piero Gobetti sul fascismo, «l'autobiografia di una nazione». Altro caso. L'esenzione fiscale della prima casa non sarebbe una forma di «evasione fiscale» come sostiene il governo; ecco un altro (suo) tratto antidemocratico, per non dire illiberale.

La prima casa - spesso frutto del risparmio di una vita sul quale si sono già pagate le tasse - è un «bene primario» per i meno abbienti; che non hanno l'alternativa fra la casa e andare a dormire sotto i ponti. Dovrebbe essere la soglia minima oltre la quale il Fisco non dovrebbe andare in uno Stato che voglia essere davvero sociale. Invece, la sua esenzione è sprezzantemente equiparata a un reato; mentre, in nome della giustizia sociale, si sta massacrando di tasse (soprattutto) i ceti meno abbienti.

Piero Ostellino
Corriere della Sera

giovedì 3 maggio 2012

Chapeau ai tecnocrati. La fantasia non è più al potere

pict011Che tipi sono questi che ci governano?Guardarli in tv, ogni volta che tengono banco in una conferenza stampa, dopo ore di Consiglio dei ministri e per annunciare decisioni di un certo peso, è istruttivo. Sono diversi da tutti coloro che li hanno preceduti, intanto. Non sono la classe dirigente liberale di un’Italia fondata sul voto per censo o su uno stato monarchico e albertino dalle basi ristrette. Non sono i gerarchi e i burocrati del ventennio fascista. Non sono i partiti della Repubblica nata con il referendum e la Costituzione del 1948. Non sono nemmeno le squadre di Berlusconi o di Prodi o di D’Alema.

E’ gens nova. Si vede a occhio nudo che non devono essere rieletti. Che sono preoccupati fino a un certo punto di non irritare Parlamento e partiti che votano la fiducia, ma non devono guardarsi da una coalizione che gli sta con il fiato sul collo né dal fuoco di batteria di un’opposizione che voglia bastonarli. Si vede che tengono prima di ogni altra cosa all’efficacia dell’azione che perseguono, si vede il riflesso anche vanitoso e procedurale, magari intellettualistico, della agognata reputazione pubblica di amministratori sagaci, severi, responsabili. Dopo cinque mesi e a fronte di decisioni tardate decenni, che incidono su interessi popolari larghi e su poteri anche forti, come il divieto di partecipazioni incrociate in aziende finanziarie concorrenti, ancora latita quello spirito compromissorio, quell’aria del guardarsi le spalle, che ha sempre aleggiato sulla comunicazione politica dei governi repubblicani, sia nell’epoca della proporzionale e della lotta ideologica sia nell’epoca del bipolarismo di coalizione aggressivo e propagandistico.

Che risultino simpatici è troppo dire. Sollecitano invece un senso di distacco, sottolineato dalla rottura di un rapporto abitudinario, pro o contro, che è sempre tipico delle situazioni conflittuali in situazioni di democrazia elettorale. Ma che uso farne, di questo distacco psicologico? L’andazzo tra le classi dirigenti politiche e di establishment è ormai quello dello scetticismo, se non del disprezzo per gente priva di “visione”, perché certi amori poi durano poco, se non vengano sollecitati con metodi ruffiani possenti, ai quali siamo stati abituati in passato. Eppure c’è spazio per un’impressione banale, che non implica l’attribuzione ai tecnocrati di una, appunto, visione redentiva e salvifica della politica di governo di una grande nazione industriale e sviluppata. Forse stanno facendo quello che unanime il ceto politico e istituzionale ha chiesto loro all’atto della formazione dell’esecutivo, forse è gente che entra nel merito, che cerca soluzioni, che non ha troppi grilli per la testa, che coltiva con moderazione le proprie ambizioni, sebbene le onori come tutti fanno. Forse sono persone informate dei fatti di cui discutono. Il loro modo di parlare, di porre le questioni, sembra coincidere con le questioni stesse, senza via di scampo, senza via di fuga. La fantasia non è più al potere. Non è più al potere la libertà della politica di giocare sull’essere e sull’apparire, di trascinarsi su e giù per la zona grigia della ricerca del consenso, anche attraverso l’uso civile e legittimo di un certo senso del mendacio, di una certa spavalderia nel rilancio poco motivato e argomentato, illusionistico, delle soluzioni possibili e impossibili ai problemi che ci circondano. Tremonti che dice di Brunetta che “è proprio un cretino” a Sacconi che aggiunge fraternamente “non lo ascolto nemmeno” in questo quadro non lo si vede. E non si vede Pecoraro Scanio dietro Padoa-Schioppa, e tra i due il ruminare deboluccio di un Prodi o di un D’Alema. Lo spettacolo è molto cambiato e non è più uno spettacolo.

Piero Giarda svolazza sulla propria fisionomia di uomo serio e mite, un eroe di Laurence Sterne dalla fisiognomica settecentesca, Enrico Bondi è subito nella versione del killer a titolo gratuito, dunque un po’ sadico, Grilli ha ingoiato uno scopettone di piombo fuso, Catricalà le ha viste tutte ma ha imparato a contenere bene la sua onnisaggezza, e Monti addirittura pensa a quello che dice, centellina con lentezza risposte e understatement, riducendo in polvere la vecchia pretesa dei giornalisti di palazzo di farsi una passeggiata con le scarpe chiodate sul corpo del potere. Dalla solita ora, ora e mezzo di conferenza togata dei ministri tecnici si esce stupefatti, incantati e stremati, e con un grado di diffidenza fatto così: ma davvero ci è capitato di selezionare della gente che entra nello specifico delle questioni con una certa aria di competenza e di disinteresse personale e di gruppo, a parte i vezzi accademici e una certa inevitabile supponenza? E allora si spiega la reazione negativa di ceto dei politici professionali, e l’indulgenza dei non-prof. come il Cav.

Giuliano Ferrara
Il Foglio

mercoledì 2 maggio 2012

11 punti per tagliare la spesa. Dopo il clamoroso flop di Tremonti, preceduto da quello di Padoa Schioppa, il controllo della spesa pubblica italiana sembra una chimera irraggiungibile perché le resistenze sono insuperabili

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    In 11 punti la direttiva predisposta dalla Presidenza del Consiglio dei ministri per la definizione della spending review: dalla riduzione in termini monetari della spesa per l'acquisto di beni e servizi, al ridimensionamento delle strutture dirigenziali ed il compattamento di uffici e amministrazioni. Il documento delinea i fronti su cui la Pubblica Amministrazione dovrà intervenire per contribuire a bloccare l’esubero di spesa.

    In sintesi:

  1. l’attività di revisione della spesa di ogni amministrazione dovrà concentrarsi sulla revisione dei programmi di spesa e dei trasferimenti, «verificandone l'attualità e l'efficacia ed eliminando le spese non indispensabili e comunque non strettamente correlate alla missioni istituzionali»

  2. razionalizzazione delle attività e dei servizi offerti sul territorio e all'estero, «finalizzata alla riduzione dei costi e alla razionalizzazione della distribuzione del personale, anche attraverso concentrazioni dell'offerta e dei relativi uffici»

  3. la riduzione, «anche mediante accorpamento, degli enti strumentali e vigilanti e delle società pubbliche»

  4. la riduzione in termini monetari per la spesa per l'acquisto di beni e servizi» anche attraverso l'individuazione di responsabili unici della programmazione di spesa

  5. una «più adeguata utilizzazione delle procedure espletate dalle centrali di acquisto e una più efficiente gestione delle scorte»

  6. la ricognizione degli immobili in uso e la riduzione della spesa per locazioni, «assicurando il controllo di gestione dei contratti»

  7. l'ottimizzazione dell'utilizzo degli immobili di proprietà pubblica anche «attraverso compattamenti di uffici e amministrazioni»

  8. la «restituzione all'agenzia del demanio degli immobili di proprietà pubblica eccedenti i fabbisogni

  9. l'estensione alle società in house dei vincoli vigenti in materia di consulenza

  10. l'eliminazione di spese per rappresentanza e spese per convegni, salvo casi eccezionali come i rapporti con le autorità estere

  11. la proposizione di impugnazione avverso sentenze di primo grado che riconoscano «miglioramenti economici progressivi di carriere per dipendenti pubblici, onde evitare che le stesse passino in giudicato».

Tanti auguri Monti: è una missione impossibile, ma facciamo il tifo per te.

lunedì 30 aprile 2012

E se facessimo come loro?

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Questi sono i tempi di pagamento dello Stato italiano. La direttiva europea dice di pagare entro 60 giorni. Appunto!

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Una grafica della Stampa, su dati Confcooperative, fa il punto della situazione sui pagamenti della pubblica amministrazione. Il tempo che un ente pubblico impiega per pagare una fattura varia molto, ma tutte le regioni del Sud sono sopra la media nazionale. La Sardegna è la regione più veloce, seconda la Lombardia. Male il Piemonte, non benissimo nemmeno la Toscana. Mancano le Regioni a statuto speciale (e tra queste la Sicilia registra record negativi).

Il debito totale della pubblica amministrazione è di 32 miliardi di euro. Scrive La Stampa: “Nel 2011 i tempi medi di pagamento italiani sono stati di 180 giorni (sei mesi), contro i 128 del 2009. Nello stesso periodo, in Francia si è passati da una media di 70 giorni a una di 64 e in Germania addirittura da 40 a 35 giorni.”

Cosa vogliono gli imprenditori? Gli imprenditori non sperano tanto, ma invocano un recepimento rapido della direttiva europea che obbliga gli Stati al pagamento entro 60 giorni. Ma questa tempistica vale per i contratti che saranno stipulati in futuro.

da (C) DAW-BLOG/DAW-NEWS

lunedì 16 aprile 2012

Teniamoli d’occhio questi qui che volevano raddoppiare il finanziamento pubblico dei partiti: c’è anche il faentino Gabriele Albonetti (Pd), quello che si lamentava per la vita da cani per il lavoro parlamentare che gli rende però 180mila euro all’anno

albUn anno fa iniziava nella Commissione Affari Costituzionali della Camera la discussione sul progetto di legge che mirava a raddoppiare il finanziamento ai partiti. Un anno fa.
Il primo firmatario del progetto di legge numero 3809 era Ugo Sposetti del Partito Democratico (è anche lo storico tesoriere dei DS, che tuttora esistono). In verità alla sua firma se ne sono aggiunte subito altre, di tutti i partiti, parecchi del Pd, cinque del Pdl, l’Udc Savino Pezzotta, il Responsabile D’Anna, l’Idv Di Stanislao e Luca Barbareschi, all’epoca in Futuro e Libertà.
Ora fanno finta di tagliare, ma soltanto un anno fa volevano raddoppiare il finanziamento pubblico. Raddoppiare capito?!
E la porcata era davvero eclatante: perché quel progetto di legge mirava a finanziare con i rimborsi anche le fondazioni dei partiti. Arrivando quindi a raddoppiare la somma del finanziamento pubblico. Nei lavori in commissione spunta anche un particolare curioso. E assai significativo a giudicare dalle presenze alla seduta di Martedì 12 aprile 2011:
Presiede Donato BRUNO e interviene il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio Francesco Belsito. Francesco Belsito vi ricorda qualcosa? Sì, proprio lui. Il tesoriere della Lega Nord era presente, soltanto un anno fa, alla discussione sulla riforma dei rimborsi elettorali, una riforma che prevedeva un provvidenziale raddoppio della somma da destinare ai partiti.

Il progetto di legge è stato poi abbinato ad altre proposte e, nel corso degli ultimi giorni, si è riaperto il dibattito in Commissione. Qualche deputato si è accorto della “crescente attenzione dell’opinione pubblica” e dei “recenti scandali apparsi sui giornali”. E quindi ora stanno molto attenti e coperti.
Ma tra qualche tempo, quando inevitabilmente se ne parlerà di meno…. molti dei deputati che all’epoca hanno presentato la proposta di raddoppio del finanziamento, torneranno a farsi sentire.

E per non perderli di vista ecco qui i nomi:

SPOSETTI Ugo;
ALBONETTI Gabriele;
BARBARESCHI Luca Giorgio;
BOCCIA Francesco;
BRANDOLINI Sandro;
BRUGGER Siegfried;
CAPODICASA Angelo;
CECCUZZI Franco;
COLANINNO Matteo;
CUPERLO Giovanni;
D’ANNA Vincenzo;
ESPOSITO Stefano;
FADDA Paolo;
FARINA Gianni;
FLUVI Alberto;
FONTANELLI Paolo;
GARAVINI Laura;
GATTI Maria Grazia;
GIACOMELLI Antonello;
GNECCHI Marialuisa;
GRAZIANO Stefano;
LENZI Donata;
LOLLI Giovanni;
LOSACCO Alberto;
LOVELLI Mario;
LUONGO Antonio;
MADIA Maria Anna;
MARCHIGNOLI Massimo;
MARINELLO Giuseppe
Francesco Maria;
MARINI Cesare;
MERLO Giorgio;
MIGLIOLI Ivano
MURER Delia;
OLIVERIO Nicodemo Nazzareno;
PAGANO Alessandro;

PEZZOTTA Savino;
PIZZETTI Luciano;
PORTA Fabio;
QUARTIANI Erminio Angelo;
RAMPI Elisabetta;
RUGGHIA Antonio;
SANI Luca;
SCHIRRU Amalia;
SERVODIO Giuseppina;
TIDEI Pietro;
TRAPPOLINO Carlo Emanuele;
TULLO Mario;
VACCARO Guglielmo;
VELLA Paolo;
VELO Silvia;
VIGNALI Raffaello;
ZELLER Karl;
ZUNINO Massimo.

venerdì 13 aprile 2012

Tagliare i soldi ai partiti? Neanche a pensarci, meglio tagliare la ricerca scientifica, la sanità, i trasporti, la cultura. No, così proprio non va

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di Aldo Forbice

Come era prevedibile
, la montagna ha partorito un topolino. Qualcuno ripete il vecchio saggio emiliano, «Piuttosto che niente è meglio piuttosto». Ma sull’accordo Abc (Alfano, Bersani, Casini) sul controllo dei finanziamenti pubblici ai partiti non ci sono apprezzamenti, al di fuori delle tre maggiori forze politiche. Anche all’interno di Pdl, Pd e Terzo polo non mancano i critici severi. E non hanno tutti i torti.
Dopo la serie degli scandali dei tesorieri (e non solo) di alcuni partiti, tutti si aspettavano una drastica presa di posizione sui rimborsi elettorali, che andrebbero drasticamente tagliati o per lo meno rapportati alle spese (elettorali) reali sostenute dai partiti. Non si può rispondere, ad esempio, come ha fatto il leader di Rifondazione comunista, che i partiti fanno politica tutto l’anno, dimenticando che il finanziamento pubblico è stato clamorosamente bocciato dagli elettori nel 1993. E che i partiti in modo gattopardesco lo hanno sostituito con i ’rimborsi elettorali‘, passando da 800 lire ad elettore a 5 euro (dal 2002) per ogni consultazione: Camera, Senato, europee e regionali. Secondo l’accordo sarà istituita una Commissione nazionale di controllo.

Sarà inoltre fissata una serie di norme vincolanti per le donazioni e per i bilanci, che verranno certificati e pubblicati su Internet. Possiamo essere soddisfatti? Non proprio. E almeno per diverse ragioni. I bilanci, in realtà li compilano tutti i partiti e sono quasi tutti già adesso pubblicati in rete. Ma possiamo giurare sulla loro credibilità? Quali organi pubblici li controllano? Solo un partito (il Pd) da qualche anno fa certificare i conti. Ma per questo possono essere definiti totalmente affidabili? Sono troppe le voci generiche e non verificabili.

Con l’accordo Abc non cambierà sostanzialmente nulla, anche se in teoria sono previste delle sanzioni. Perché non è stata presa in considerazione, come sollecitano tutti gli esperti, anche all’interno dei tre partiti, il semplice rimborso delle spese elettorali effettivamente sostenute? In sostanza questo «accordicchio melmoso», come lo ha definito sprezzantemente Antonio Di Pietro, non cambia radicalmente il sistema di finanziamento pubblico delle forze politiche, lievitato - è utile ricordarlo - del 1.110 per cento dal 1999 al 2008. Anzi, in un certo senso l’attuale sistema viene confermato e istituzionalizzato, con qualche ritocco che dovrebbe garantire una maggiore trasparenza. Il flusso di risorse pubbliche non solo non viene eliminato, ma neppure ridotto.
Tra l’altro, a parte un generico accenno di Bersani, non si dice nulla sulla tranche di 100 milioni prevista per il prossimo luglio.

Sarà cancellata? Ne dubitiamo, così come dubitiamo anche di altre iniziative referendarie che qualche partito (come l’Idv e i radicali) rilanciano demagogicamente per l’abolizione della legge sui rimborsi elettorali. E’ curioso come certi partiti siano ’ingrassati‘ con i ricchi sostegni pubblici e ora ne chiedano l’abolizione, cercando di cavalcare l’onda negativa dell’opinione pubblica nei confronti dei partiti, coinvolti in troppi scandali. In 11 anni l’Idv ha incassato oltre 75 milioni di euro, investendoli in gran parte in proprietà immobiliari. Ora, per essere più credibile nell’iniziativa referendaria, perché non restituisce almeno una parte dei rimborsi non documentati?

da Il Resto del Carlino del 13/4/2012

martedì 27 marzo 2012

Il tremendo e ferreo potere di veto della CGIL

prova di forzaGli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto equivalga a mettere in discussione la democrazia.

Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione, la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne toccato, il governo uscì sconfitto.

In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo pochi mesi fa.

Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose.

Angelo Panebianco
Corriere della Sera del 26 marzo 2012

sabato 24 marzo 2012

Da oggi ognuno è più libero

pict004Nel 1963 si formò in Italia il primo governo di centro-sinistra. Per i suoi sostenitori era una breccia riformista e di modernizzazione democratica in un paese ingessato dalla Guerra fredda e dalla cultura classista, con i socialisti che si emancipavano dai comunisti di Togliatti. Per questo l’Avanti di Pietro Nenni fece un titolo esplosivo: “Da oggi ognuno è più libero”. Avevo undici anni e ricordo in merito il sarcasmo della mia famiglia comunista, divenni adolescente con l’idea che quella era una truffa riformista, feci le mie battaglie nei miei vent’anni, giuste e sbagliate, e poi me ne andai e diventai un robusto anticomunista di quelli che è semplice odiare con le viscere e il sentimentalismo da bacchettoni che imperversa in Italia.

Nel 1970 un vecchio socialista di nome Giacomo Brodolini, per santificare quel titolo dell’Avanti e la sua stessa vita, varò al governo lo Statuto dei diritti dei lavoratori, nel quale era detto, in un paese in cui i padroni si comportavano in modo autoritario, e l’economia era un’economia mista privato-pubblica sotto il controllo dello stato, e sostanzialmente autarchica, che nessuno poteva essere licenziato per motivi economici, serviva una “giusta causa”. Il Partito comunista, che non voleva concedere niente a quel titolo dell’Avanti di qualche anno prima, si astenne, non votò la legge. Una magistratura del lavoro che si educò, come l’altra, alla scuola militante e d’assalto di un marxismo abborracciato e fortemente contaminato dal solidarismo, rese quella “giusta causa” un tabù ideologico, culturale e sociale: in questo paese non si può licenziare, punto.

Il risultato storico è che i licenziamenti collettivi sono stati sempre fatti, perché le aziende che falliscono o sono improduttive o non possono andare avanti, ma per il resto il sistema delle imprese ha vissuto di immobilismo sociale e di assistenza e inciuci. Molti costi sociali, invece di pagarli i padroni, come avviene adesso con una riforma Ddl che ha elementi di generosa e giusta tutela del lavoro, invece di essere parte di una crisi di sistema che il sistema deve risolvere con gli investimenti (modello americano, modello tedesco di cogestione sindacale), furono addossati al debito pubblico. Una cappa di piombo di protezione sociale e di stato assistenziale privò di qualsiasi senso l’economia produttiva, fece di noi sudditi impauriti, nanificò le imprese, e portò nel tempo l’Italia, per un periodo anche con l’aiuto dell’egualitarismo salariale della scala mobile, a una situazione insostenibile e fallimentare che si è pienamente disvelata con l’euro e la globalizzazione economica.

Ora un governo tecnocratico,
dopo che i governi Berlusconi e Prodi e D’Alema fallirono nel compito, ha varato una riforma della “giusta causa”, con i saggi complimenti di Giorgio Napolitano, anche lui un comunista che ebbe molti dubbi sul “moralismo storico” di Berlinguer, sostituto del materialismo storico di Carlo Marx, e ovviamente della Banca centrale di Francoforte. Il paese è subito ripiombato nell’ipocrisia, ci si dimentica che i consulenti del lavoro sono stati ammazzati come cani, si fa la rima Fornero/cimitero, si alzano nuove barricate, ci si aggrappa alla losca idea di un nuovo compromesso che mandi tutto in vacca. In nome di un po’ di senso storico, e in segno di riconoscimento a questi borghesi di sinistra e di centro che hanno fatto la cosa giusta al posto di una sinistra mai diventata riformista,
pubblichiamo lo storico comunicato sul disegno di legge di riforma, firmato da Monti e Fornero, accostandolo a quel vecchio titolo dell’Avanti – DA OGGI OGNUNO E’ PIU’ LIBERO – che fece storia mentre noi facevamo ideologia, e non delle migliori.

Leggi Il governo approva la cosa giusta sull’art. 18 senza esautorare l’Aula - Leggi Il Cdm approva la riforma del lavoro. Eccola

Giuliano Ferrara
FOGLIO QUOTIDIANO

mercoledì 21 marzo 2012

Una svolta con due errori

di Oscar Giannino

susanna_camusso_segretario_cgilIl governo ha fatto una scelta di metodo saggia, sulla riforma del mercato del lavoro. Confronto a oltranza sì, fino a giovedì. Potere di veto ad alcuno, no. Se la Cgil non convergerà per la nuova disciplina dell’articolo 18, come non converge e lo ha messo a verbale, il governo procede comunque. E’ giusto così, dopo tanti anni di immobilità. E visto che sul mercato del lavoro italiano continuano a vivere totem derivanti da un passato che non passa, molto ideologico. Da questo punto di vista, il superamento del tabù dell’articolo 18 è epocale. Dopo la riforma delle pensioni che è stato grande merito del governo Monti varare di corsa, è proprio la riforma del mercato del lavoro quella più utile a sbloccare. Nell’indice di competitività globale elaborato dal World Economic Forum, nel 2011 l’Italia è al 43° posto su 142 Paesi, stabile o in discesa da anni. Ma nel mercato del lavoro siamo 123esimi su 142. Solo per crimine organizzato e costo e trasparenza della regolazione pubblica, siamo più in giù. Siamo al 134° posto per flessibilità dei salari, al 126esimo per le politiche di assunzione e licenziamento, al 125° sia per reddito da lavoro rispetto al peso preponderante del cuneo fiscale, sia per proporzione tra salario di produttività e quello complessivo. Detto questo, la riforma appena illustrata da Monti e Fornero, per chi la pensa come noi ha dei difetti di fondo. Pesanti.

Purtroppo, l’approccio riformatore del governo ha un primo difetto. Grave. Il grande moltiplicatore della partecipazione al mercato del lavoro – 12 punti complessivi più basso che in Germania, 18 per i giovani, 22 per le donne – è e non può che essere l’abbattimento del cuneo fiscale, che ci dà più bassi salari al più alto costo complessivo. Ma il governo su questo dice che non si può: non si riesce a tagliare la spesa pubblica. Purtroppo, non c’è grande riforma del lavoro che abbia avuto successo, da quella tedesca a quella svedese, che non sia partita da questo primo passo. Da noi, non c’è. Lo Strato continuerà ad asfissiare il lavoro e l’impresa. E la delega fiscale che va in Consiglio dei ministri venerdì da questo punto di vista è una cattiva ulteriore conferma: nessun abbattimento di aliquote, resta l’Irap, l’IRES diventa IRI (pessima idea, acronimo statalista per definizione), altri aggravi procedurali in nome del sacro mantra della lotta all’evasione, ricomparsa del fondo rimborso ai contribuenti onesti di almeno parte dei proventi alla lotta all’evasione, strumento che da anni viene promesso per poi riscomparire nei fatti come già avvenuto il mese scorso sotto questo stesso governo.

Il secondo punto critico è stata invece la bassa correlazione tra minore flessibilità all’entrata e maggiore in uscita. E’ il modo per rendere più ragionevole il risultato finale al quale occorre mirare, che non è ideologico ma deve tradursi in più occupati. Se si sposa la linea della minor flessibilità all’ingresso, è più difficile superare l’ostacolo di quell’enorme feticcio polemico che è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ieri, il ministro Fornero ha dovuto ammetterlo, che le critiche su questo sono fondate.Il ministro ha inizialmente sostenuto una forte stretta alle diverse forme di ingresso nel mercato del lavoro diverse dall’assunzione a tempo indeterminato, in nome della prevalenza di quest’ultimo per contrastare il precariato. E’ un errore. In tempi di forte rallentamento produttivo la

sabato 17 marzo 2012

Twitter per l’Italia

 

Chi cavalca la nostra ipotesi di un sistema politico che si fa adulto?

Tutti per l’Italia no, ma Twitter per l’Italia sì. A noi sembra normale prendere atto, siamo realisti. Il precedente sistema è morfologicamente fallito. Morfologicamente? Sì, nel senso che non ha preso la forma di una coalizione capace di governare e di opposizioni capaci di promuovere alternative. Buone cose sono state fatte. Anche da Pomicino. Anche da Prodi e D’Alema. Figuriamoci da Berlusconi e Bossi e Maroni. Alcuni ci erano simpatici, anche nelle bisbocce, altri ci sembravano torvi pur nella più mesta delle serietà al governo. Ma tutto questo non conta più. Il fallimento è generale. Di sistema. E comprende gruppi di potere e di establishment editoriale che hanno pestato anche loro l’acqua nel mortaio. Morfologicamente e pure moralmente, culturalmente, civilmente. Di questo non si discute. Sono fatti. Nell’assenso universale, un buon arbitro ha messo un commissario, e la cura sospensiva della democrazia sta più o meno funzionando, e sta pregiudicando anche la sola idea che si possa ripartire da dove ci eravamo lasciati. Heri dicebamus, dopo il 2013, è una parolaccia. La parola “tutti”, invece, è una parola nuova. Come (o quasi come) la parola Twitter.

La foto del Preside con i segretari politici Casini la allega a una sua idea, che è identica alla nostra. Certo che nel 2013, anno di ripresa della democrazia elettorale, bisogna scegliere. Forse bisogna farlo con una legge elettorale proporzionale. Forse no. Comunque sia, bisogna che il voto non predisponga di bel nuovo il paese a conflitti ormai tramontati, che persistono solo nella testa dei più radicali e fanatici tra gli antiberlusconiani, e dei più radicali e fanatici della compagnia arrembante della vecchia destra protoberlusconide. Taglio delle ali che non fanno volare, taglio delle fobie che intristiscono le culture, taglio dei rinfocolatori mai sazi di tizzoni ardenti, da sempre indicati da questo giornale come nemici della politica suggestiva e utile, e dunque ci va ancora una massiccia azione di riforma con un consenso bipartisan e costituente. Volete dire che di qui a un anno il più sarà fatto, e che come dice D’Alema siamo pronti per uno scontro elettorale adulto, sperando che vinca il migliore dei Bersani possibile (o degli Alfano)? Se volete dir questo, e non capite la logica del “tutti per l’Italia”, vi ingannate. Prendete i vostri desideri, e magari i vostri interessi più immediati, per realtà. Meglio ratificare nell’azione politica diretta che le vecchie condizioni selvagge della lotta politica sono tramontate, Rai o non Rai, intercettazioni o no, e che per costruire le nuove occorre un po’ di tempo, e molta saggezza. Tutti per l’Italia è la vaga formula per una cosa molto concreta.

       Giuliano Ferrara

FOGLIO QUOTIDIANO

mercoledì 14 marzo 2012

Un “bollino blu” per i commercianti onesti

bollino-bluUn “bollino blu” segnalerà i negozianti e gli artigiani onesti. Sarà la stessa Agenzia delle Entrate guidata da Attilio Befera a rilasciare il pubblico attestato che i commercianti potranno esibire alla propria clientela, magari accanto alla vetrina del proprio negozio, per dimostrare di essere in regola rispetto agli adempimenti tributari. E’ questa una delle strade che l’amministrazione tributaria vuole battere in futuro per migliorare il rapporto tra contribuenti e fisco, nonostante alcune associazioni di categoria parlino di iniziative che ricordano le leggi razziali.

Nell’epoca Monti segnata dal liet-motiv della lotta all’evasione, Befera sottolinea come il problema di fondo sia soprattutto di ordine culturale e fa ben sperare che “in larghi strati della popolazione, in particolare nelle generazioni più giovani, stia sempre più maturando una sensibilità rispetto al tema dell’equità fiscale”, tale da scalfire il luogo comune che “chi evade è furbo e chi paga è uno sciocco”.

Intervenendo ad un convegno organizzato dall’Accademia internazionale per lo sviluppo economico e sociale e dalla Pontifica Università Lateranense, il direttore dell’Agenzia ha anche rivendicato l’utilità dei blitz anti-evasione compiuti negli ultimi mesi che, secondo i dati a sua disposizione, hanno il consenso dell’80% degli italiani. Ed ha annunciato che prima dell’avvio della campagna fiscale per il 2012 sarà finalmente reso disponibile il software del redditometro che consentirà ai contribuenti di misurare se la loro capacità di spesa risulta in linea con i redditi 2011 che dovranno essere dichiarati

lunedì 12 marzo 2012

Ma come stiamo messi? Il presidente dell’Associazione nazionale comuni italiani (Anci), nonché sindaco Pd di Reggio Emilia, invita i comuni a non rispettare la legge.

fuorilegge“Non è accettabile che il Sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, nella sua veste di presidente dell’Anci, inviti i suoi colleghi Sindaci a non rispettare il patto di stabilità.” Delrio aveva, infatti, riferito alla stampa che avrebbe proposto al “Consiglio nazionale dell’Anci che tutti i Comuni italiani procedano al di fuori del Patto di Stabilità per alcune tipologie di pagamento”.
“E’ bene –dichiara Filippi consigliere regionale PDL – che i cittadini sappiano che il Patto di Stabilità è stato voluto dall’UE e, ovviamente, fatto proprio anche dall’attuale governo, per impedire un ulteriore aggravamento del debito pubblico giunto ormai a livelli insostenibili a causa degli innumerevoli sprechi e delle spese smisurate di diversi enti locali. Basta, infatti, esaminare i passivi di Bilancio di alcuni Comuni e Regioni italiani per rendersi conto della gravità della situazione e della necessità di porre uno stop alla dilapidazione di denaro pubblico.
Sono i cittadini contribuenti a dover pagare le conseguenze della cattiva amministrazione di alcuni Sindaci e Presidenti di Regione. A Reggio, ad esempio, la municipalizzata Iren ha accumulato in pochi anni tre miliardi di debito. E’ vero che vi sono state anche Amministrazioni virtuose, che hanno bilanci in pareggio o in attivo, mentre altri hanno sperperato masse enormi di denaro pubblico.

Condivisibile sarebbe dunque la richiesta di una modifica della normativa riguardante il Patto di Stabilità, che si proponga di realizzare tagli selettivi, stabiliti in base all’equilibrio o meno dei bilanci degli enti locali.
Inaccettabile invece è il fatto che un Presidente dell’Anci inviti tutti i suoi colleghi a violare la legge, soprattutto in questa situazione di crisi economica; una situazione nella quale si chiedono ai cittadini sacrifici, per ridurre il debito pubblico.
Il pubblico, principale responsabile dell’attuale situazione, deve, invece, fare la propria parte. Inaccettabile è che si ricorra alla demagogia per cercare l’applauso delle aziende private creditrici dello Stato: è un pessimo esempio che si offre ai cittadini, oltremodo grave se viene da un rappresentante importante delle istituzioni”.

sabato 10 marzo 2012

Monti il banchiere

Su richiesta, pubblico quest’intervento di Gianmaria Dall’Osso, precisando che non corrisponde alla mia personale opinione. Al contrario di Dall’Osso penso che Monti stia facendo un ottimo lavoro e stia restituendo credibilità e onore all’Italia.
Fabio Piolanti

governo-montiHo nell’ultimo periodo sentito tanto dire che ora L’Italia quella rappresentata da Monti è diventata una nazione di rilievo all’interno della comunità europea una nazione che conta che decide che politicamente è per la prima volta influente all’interno dell’euro zona e la cosa più strana e che quasi ci avevo creduto pure io ma poi gli ultimi avvenimenti mi hanno riaperto gli occhi anzi mi hanno convinto ancora di più che il governo dei banchieri altro non sa fare se non agevolare le banche.

In questi giorni quando era la politica a servire quella vera quella che doveva riportare a casa i due marò quella che doveva salvare la vita all’Italiano ostaggio in Nigeria quella politica non c’era ma erano presenti solo personaggi capaci di parlare di banche di spesa pubblica di risanamento .

Certamente questo Governo avrà sulla coscienza la morte dell’ostaggio e mi auguro che monti si renda conto che al di fuori del circuito bancario nessuno lo considera tanto che gli Inglesi manco lo hanno avvertito del blitz per liberare gli ostaggi in Nigeria questo è ciò che succede quando chicchessia – Giorgio Napolitano- si prende la briga di istituire un governo di non politici ma di professori e banchieri senza nessuna conoscenza all’interno della politica mondiale.

Se tutto questo fosse successo durante il governo Berlusconi la sinistra sarebbe insorta urlando contro il governo accusandolo di essere un governo incapace ma ora tacciono e forse dovrebbero provare un poco di vergogna .

Chissà forse per l’ennesima volta il presidente Berlusconi farà un altro miracolo assieme all’amico Putin –anche lui uomo dei bunga bunga –ma capaci di risolvere ciò che ai professori è scappato dalle mani poca roba solo la vita di un paio di nostri soldati.

Gianmaria

domenica 26 febbraio 2012

Ci appelliamo anche a Iseppi e ai suoi

Speriamo vivamente che il governo rinunci ad applicare l’Imu alle scuole paritarie cattoliche.
Se le scuole paritarie, che già oggi fanno miracoli per non aumentare il costo delle rette, dovessero scomparire per effetto di costi impossibili da sostenere, la scuola italiana perderebbe un patrimonio culturale notevole, mentre lo stato e i Comuni non riuscirebbero a far fronte all’aumento del 10 per cento della popolazione scolastica.
Per questo ci appelliamo ai consiglieri comunali di Uniti per Casola per sollecitare, assieme a noi, i parlamentari della nostra regione affinché non si sottraggano a un impegno a favore non tanto delle scuole paritarie, quanto del sistema pubblico d’istruzione.Imu chiesa