Purtroppo, il caos monta ancora. La politica europea mette in scena in queste settimane una bizzarra coincidenza. I guasti dell’euromeccanismo non sono affatto rappresentati dal rigore “imposto” dai tedeschi, come oggi si grida. Bensì dal fatto che al necessario rientro delle finanze pubbliche più squilibrate non sia stato affiancato un tangibile strumento di cooperazione tra euroforti ed eurodeboli, appianando nel tempo gli squilibri nelle bilance dei pagamenti e unendo i mercati dei beni, dei servizi e del lavoro, cosa che inevitabilmente alzerebbe la quota di reddito e prodotto procapite a favore degli eurodeboli a minor costo (è un meccanismo che varrebbe per gli “altri” eurodeboli, non per l’Italia ma questo è un altro paio di maniche, la colpa del massimo salario lordo in presenza del minimo netto è del nostro Stato, non dell’euro).
In tale situazione, la coincidenza bizzarra alla quale assistiamo è quella tra illuminati – o sedicenti tali – e pazzi furiosi.Gli illuminati o sedicenti tali – da monsieur Hollande a Frau Kraft in Renania del Nord-Westfalia, dal leader greco di Syriza Alexis Tsipras a tutti i capipartito italiani, da noi non c’è differenza in questo tra vecchia destra e vecchia sinistra – brindano al santo ripudio del rigore, espresso dalle urne e dalle vittime sociali della crisi. Ma propongono spesa pubblica, non dicono ai loro elettori che per difendere l’euro occorre unire i mercati e che tutti accettino più concorrenza a casa propria del famigerato – ricordate l’abortita direttiva Bolkenstein? – “idraulico placco”.
Con questo atteggiamento, checché dicano i media al servizio delle élite stataliste, la loro ricetta è identica a quella che gonfia le vele di leader e partiti populisti antieuropeisti e nazionalisti, si tratti di Marine Le Pen e di Melenchon in Francia, del Partito della Libertà in Austria come in Olanda, o di Alba Dorata in Grecia, o di Jobbik in Ungheria.
Dal punto di vista iper-minoritario della mia scuola austriaca, si avvera un triste presagio inascoltato di grandi europei del secolo scorso, come Röpke e Hayek. Nessuno di loro negava la base e il valore di schemi assicurativi sociali pubblici che hanno costituito i pilastri del welfare moderno. Semplicemente ed energicamente, mettevano però in guardia dall’eccesso incrementale insito in ogni macchina pubblica autoreferenziale, esclusa da indici verificabili di produttività e sostenibilità nel medio-lungo periodo. I rischi di un’estensione incontrollata del bilancio pubblico sarebbero stati di un duplice ordine: per il peso delle tasse, e per la stessa libertà.
E’ puntualmente avvenuto. Ma dopo decenni di continua crescita della spesa corrente a cui la politica ha adeguato le tasse solo con strappi diluiti nel tempo, quando il deficit andava fuori controllo e il debito pubblico esplodeva, oggi in Italia innanzitutto e insieme in mezza Europa risulta difficile alla politica ammettere che la colpa è tutta sua. Si preferisce prendersela ad arte con un nemico esterno. L’intransigenza tedesca si presta purtroppo bene alla bisogna.
Rileggiamo quanto scriveva Herbert Spencer, dalle cui Social Statistics - probanti l’avanzamento del reddito anche per i ceti più bassi nel regime di libero mercato e concorrenza – Alfred Marshall derivò la base materiale dei suoi Principi di economia, che a tutt’oggi bastano e avanzano per respingere ogni pretesa di fallimento intrinseco del capitalismo: “Misure di tipo dittatoriale, in rapida moltiplicazione, hanno provocato una contrazione delle libertà individuali; e questo in due modi. Nuove norme, varate in numero crescente ogni anno, hanno vincolato i cittadini in direzioni lungo le quali, un tempo, le loro azioni non erano state limitate, e li hanno forzati a compiere azioni che un tempo potevano fare o non fare, come a loro aggradava; e contemporaneamente oneri pubblici sempre più rilevanti, soprattutto a livello locale, hanno ulteriormente ristretto le loro libertà diminuendo la parte dei loro guadagnai che possono spendere a loro piacimento e aumentando quella che viene loro sottratta per essere spesa come piace alle agenzie pubbliche”. Il libro da cui è tratto si intitolava programmaticamente The man versus The State, cioè L’uomo contro lo Stato, ed era il 1884.
Alla domanda “come vedi l’exit strategy per l’euroarea in questo nuovo casino?”, Bracy Bersnak, liberale a tutta prova che insegna al Christendom College a Port Royal, nella valle dello Shenandoah in Virginia, ha risposto in un modo secco e chiaro, che condivido integralmente.
Ci sono quattro alternative, che possono anche naturalmente mischiarsi e sovrapporsi tra loro.
La prima via è quella dell’austerità volontaria. Ci sia l’euro o meno, le finanze pubbliche nazionali vanno rimesse in linea secondo il principio della più bassa spesa socialmente efficiente compatibile con un fisco più leggero, favorevole alla crescita. La via seguita dalla Polonia fuori dall’euro, dai Paesi baltici Estonia Lituania Lettonia. Occorre una forte e motivata leadership politica, per reggere alla protesta che si scatena prima che i benefici della maggior crescita si manifestino.
La seconda è quella dell’austerità imposta. Fino a questo momento, quella imposta da Bruxelles e Berlino non si mostra capace di consensi. Ma poiché se la Grecia esce dall’euro l’uscita di altri eurodeboli non è questione di giorni ma di mesi, allora bisogna stipulare un nuovo euroaccordo capace di unire il vincolo esterno a un meccanismo cooperativo tra eurodeboli ed euroforti. Tradotto: se esce l’Italia la Germania ci perde troppo, e bisogna negoziare su questa base.
La terza è la via del ripudio dei debiti. Chi volesse seguirla, deve sapere che la botta per redditi e patrimoni è bestiale. Può essere obiettivo di forze antisistema che mirino ad addossarne la colpa a chi ha governato prima, per tagliargli sotto i piedi ogni possibilità di consensi futuri. Ma esporrebbe comunque ciò che resterebbe dell’euroarea a fughe di capitali e attacchi speculativi che non risparmierebbero la Francia, per dirne una.
La quarta via è quella dell’impotenza. Nuovi ribaltamenti di governi oltre a quelli già avvenuto in due terzi d’Europa, nuovi rinvii di decisioni invece indilazionabili.
La via preferita da chi qui scrive per l’Italia è la prima. Ci sia l’euro, oppure no. La nostra spesa pubblica e il nostro fisco rendono la loro difesa improponibile, da un punto di vista logico. Ma sinora, nella stanza dei bottoni italiana o meglio in quel che ne resta,destra sinistra e tecnici l’hanno sempre pensata diversamente.
Oscar Giannino
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