Il partito che ha inventato le primarie rischia di scomparire per averle perse (quasi) tutte. Dopo Milano, Napoli, Cagliari, Genova, la Puglia, adesso è il turno delle primarie di Palermo a mettere a nudo il fallimento della strategia elettorale del Pd e mostrare tutte le contraddizioni dello strumento scelto dal partito di Bersani per selezionare la sua classe dirigente.
Perché se dobbiamo dare retta alla retorica delle primarie, quella che esalta la partecipazione, le scelte dal basso, il coinvolgimento della società civile, la trasparenza delle scelte, la scalabilità dei vertici politici e tutto l’armamentario democraticistico di cui il Pd si è sempre vantato, allora la logica conseguenza sarebbero le dimissioni del segretario Pierluigi Bersani. Quella lunga serie di sconfitte infatti – se presa sul serio – interpella direttamente il vertice del partito, la sua linea politica, le sue scelte di fondo. E se le primarie mandano un messaggio, questo è diretto non tanto ai candidati che di volta in volta vengono spediti al macello, ma al segretario, e quel messaggio dice che il problema è lui.
Se invece il Pd continua a baloccarsi con le primarie e si consola con il fatto che i candidati selezionati, anche contro le indicazioni di partito, alla fine vincono le elezioni (ma a Palermo non è affatto detto), allora bisogna ammettere che qualcosa non va con quello strumento, che il Pd non è un partito adatto al sistema delle primarie. Almeno non il modello di Pd che è incarnato dalla sua classe dirigente attuale.
Non si può avere un partito tendenzialmente centralizzato, verticistico, pensante nell’apparato e rigido nelle regole interne e poi affidarsi ciecamente alle primarie, perché queste si trasformeranno inevitabilmente in preziose occasioni per regolare i conti interni al partito e se del caso anche della coalizione. Le primarie in questo modo, invece di dare voce alla società civile (ammesso che esista nei termini in cui la vagheggia il Pd) diventano l’arena di scontro delle correnti interne, con il risultato che minoranze ben organizzate sottraggono il diritto di scelta a larghe maggioranze di cittadini. Un caso lampante di democraticismo che uccide la democrazia. Al quale si aggiungono esasperazioni come quella di far votare gli immigrati che hanno prodotto le truppe cammellate cinesi a Napoli e i seggi “razziali” a Palermo.
Le tanto evocate primarie americane funzionano abbastanza bene perché insistono su partiti che già di per sé sono solo grandi comitati elettorali, la cui legittimazione consiste molto più nella capacità di mobilitazione del proprio elettorato che non nel veder rispettate le indicazioni dei vertici. Al contrario per il Pd suona patetico e autolesionista vantare il grande afflusso alle urne delle primarie per poi dover riconoscere che il voto suona soprattutto come condanna della linea del partito.
Come se al Pd non fossero bastate le sconfitte elettorali accumulate negli ultimi anni, il partito sembra impegnato nel produrre sconfitte “fatte in casa” in una vertigine masochistica senza fine. Non solo infatti si mandano allo scontro candidati della stessa parte ma li si espone a veleni di ogni genere, sospetti di brogli, accuse sanguinose, risentimenti e ritorsioni. Il tutto perché le primarie sono considerate “il mito fondativo” del Pd, un totem da venerare nel momento stesso in cui serve a impiccarcisi.
Oggi anche a Palermo si conferma la regola aurea secondo cui “per vincere le primarie del Pd non bisogna essere sostenuti dal Pd”. Chiunque saprebbe trarne le conseguenze e innescare una rapida marcia in dietro, il Pd invece se ne fa un vanto con il sottointeso che solo i veri democratici (e non certo quei gaglioffi del centro-destra) sanno suicidarsi in nome della democrazia.
di Giancarlo Loquenzi
l’Occidentale
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