Pensare oggi il futuro del Popolo della Libertà significa provare a fare un ragionamento più ampio sull’identità del centrodestra italiano. Perché un dato emerge chiaro oltre tutti i tentativi di analisi: un centrodestra in Italia ci sarà sempre perché sempre esisterà un popolo di moderati e riformisti che difficilmente accetterà di sostenere una sinistra incapace di dire con convinzione addio ai suoi vizi antichi.
Se il popolo dei liberal esisterà ben oltre l’esperienza di Berlusconi e dei suoi governi, viene da chiedersi da chi e con quali forme quel popolo sarà rappresentato. È necessario – in questa pausa della politica determinata dall’esistenza di un esecutivo tecnico di larghe intese – che il Pdl ritorni ai suoi fondamentali e riscopra l’ambizione di diventare il partito (popolare) dei liberali italiani.
Un partito non a voce unica, e quindi senza derive lidersitiche, con alcuni valori di riferimento e regole chiare per determinare il proprio assetto politico ed organizzativo. Il modello sono i grandi partiti anglosassoni, capaci di tenere insieme coalizioni di fatto e posizioni diverse nel nome di una sintesi più ampia.
La nostra stella polare deve tornare ad essere l’uomo e il suo tentativo di auto-organizzarsi, contrapposto alla fiducia nelle sovrastrutture statali che caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) il blocco socialdemocratico. All’interno di questi paletti (centralità dell’individuo, società prima dello stato, sussidiarietà) va organizzata e pensata la nostra azione politica. All’interno di questi limiti ideali va rinnovato lo sturziano (oggi sacconiano) appello “ai liberi e forti” e il richiamo ai valori della nostra tradizione nazionale.
Questo, in un quadro di regole che permetta al partito di modificare forme ed assetti, rinnovando la lirica e la narrativa del suo messaggio al Paese, ma conservando e difendendo gelosamente il suo “core” valoriale. Un’anima fatta di uomini e di donne, di comunità, di aggregazioni spontanee ed informali, di associazionismo e di no profit, di imprenditoria sana e di sindacalismo responsabile. Tutte forze che, per non essere percepite come agenti esterni al mondo dei moderati, devono essere inserite all’interno di un processo di inclusione strutturale.
Per farlo, e fuggire dai pericolosi collateralismi tipici della filiera sinistra-cgil-coop rosse, serve anche qui un ritorno ai fondamentali: il partito deve aprirsi alla democrazia, quella diretta e non mediata, quella capace di coinvolgere gli outsider e di spezzare fastidiose rendite di posizione. In Inghilterra e Stati Uniti, sia i conservatori che i repubblicani, utilizzano le primarie come strumento per attualizzare il proprio assetto, incentivare un confronto tra eletti (o potenziali tali) ed elettori che non si riduca ad una mera conta delle tessere nonché per stimolare la partecipazione di tutti i blocchi sociali ai processi decisionali del movimento.
In Italia le primarie sono state utilizzate, spesso strumentalmente, solo dal Partito Democratico e dai suoi alleati. Da qualche tempo anche il Pdl sembra aver compreso che processi decisionali aperti e il principio di “una testa, un voto” sono naturalmente molto più nelle corde di un movimento moderato e popolare che in quelle della nostrana sinistra elitaria. E dunque, lavoriamoci su.
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