L’intervista di Silvio Berlusconi al Financial Times è candida e aerea come un volo di colomba. L’astuzia serpentina del genio del male non si scorge nemmeno tra le righe. Si era proprio rotto di stare lì a fare la testa di Turco per il paese che lo odiava irrimediabilmente, l’imputato di scena per i fanatici in toga, e il pilastro di una coalizione di governo che non ha mai veramente quagliato. Per lui sembrerebbe un happy ending. Oltre tutto, qualche dubbio sul funzionamento del sistema succeduto con la “religione del maggioritario” alla Repubblica dei partiti (e della legge elettorale proporzionale) l’aveva da sempre nutrito, e talvolta espettorato. Desidera che gli si riconsoca l’eleganza del gesto delle dimissioni, il senso dei tempi di scena, e non c’è ragione di non farlo sebbene da lui si attendessero ineleganti rivoluzioni pop, non una cabaletta da opera dell’Ottocento. Ma se non era padrone di ciascuno di noi, nel senso malefico proiettato sulla sua corte dagli gnomi dell’Arcinemico, per lo meno padrone dei suoi atti lo era. Ci aveva messo del suo, nel gorgheggio e nell’organizzazione del cartello che ha cambiato l’Italia e l’ha illusa e delusa come sempre fanno i progetti di politica & potere, e se lo è ripreso con un bell’inchino.
Se il Cav. conferma in Europa la natura definitiva del suo adieu, che non è un prendersi una boccata d’aria, e difende con insoliti toni blindati un governo forse utile a domare l’emergenza, un governo che incassa e lo ringrazia proprio nei giorni in cui si assiste a prove di autonomia della Camera nel confronto di sistema con i magistrati, ne risaltano inevitabilmente le responsabilità dei suoi eredi. Forse non basta che Berlusconi, l’ultimo a pensare in tempo a una successione ordinata e significativa, ripeta che Angelino Alfano è il suo delfino e che comunque saranno elezioni primarie a scegliere il numero uno alle elezioni del 2013. Può essere un punto di partenza. Ma poi è necessario avviare una discussione che coaguli forze, che definisca programmi e stabilisca quanto è robusta la delega, quali i margini effettivi di autonomia del partito o del movimento fondato dall’ex premier.
Non sono faccende semplici, e Berlusconi conferma che se ne è andato non senza rivendicare con evidente compiacimento il suo ancora alto grado di popolarità personale, la sua capacità di trascinamento, insomma un’influenza che per primo non considera esaurita. Spenderla, quell’influenza, potrebbe essere difficile come è stato difficile governare l’Italia. Il vero lascito di Berlusconi è la libertà di esistere di un paese che prima di lui non c’era, ora all’eroe popolare toccherebbe governare da una sfera quasi privata, condizione per lui invidiabile, una piccola patria politica in ambasce. E’ quel che tocca ai fondatori.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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