venerdì 7 ottobre 2011

Meno male che la Fiat c’è! Marchionne rompe con il gattopardismo della Marcegaglia e pone le basi per la prima vera rivoluzione liberista italiana. Sono questi i fatti politici che contano, non i gossip e le chiacchiere di una sinistra vecchia e stereotipata

gattopadismoLa lettera che Sergio Marchionne, l’Amerikano, ha indirizzato ad Emma Marcegaglia rappresenta senza dubbio l’evento più importante nella vita politica italiana degli ultimi mesi. Rappresenta se non altro la rottura dello schema logico che domina il nostro discorso pubblico: la dissociazione completa fra le enunciazioni pubbliche ed i comportamenti conseguenti a tali dichiarazioni. L’Italia è il Paese dei gattopardi, il Paese del “che tutto cambi affinché non cambi nulla”. E il merito di Marchionne è quantomeno quello di aver rotto lo schema ed essersi sottratto al copione della simulazione/dissimulazione.
Nonostante possa apparire assai complessa, in realtà la questione sollevata dall’ad di Fiat è molto semplice e proviamo a riassumerla in estrema sintesi.

Il gruppo Fiat attraversa da alcuni anni una fase di difficoltà collegata anche alla necessità di una profonda ristrutturazione collegata alle nuove esigenze del mercato automobilistico globale. La ristrutturazione richiede importanti investimenti ed un pesante impegno finanziario del gruppo. Una parte significativa dell’investimento richiesto è previsto su impianti collocati nelle regioni meridionali del Paese.
La direzione del gruppo ritiene che, perché tale impegno possa essere remunerativo, sia necessario rendere più flessibile il sistema delle relazioni industriali, in particolar modo prevedendo che la contrattazione aziendale possa introdurre deroghe anche in pejus alla contrattazione nazionale (con riferimento ad orari e turni di lavoro, ferie , malattie, salario ecc…). Per rendere possibile tutto ciò istituisce una Newco con l’obiettivo esatto di sottrarsi ai vincoli del contratto nazionale. Cisl e Uil accettano le condizioni poste dalla Fiat e sottoscrivono l’accordo (che viene anche approvato da un referendum fra i lavoratori).
La Cgil non accetta l’accordo e si rivolge al giudice chiedendo l’annullamento del contratto.

Il giudice si pronuncia dando sostanzialmente ragione a Fiat, con la sola eccezione della presenza in fabbrica della rappresentanza aziendale dei sindacati che non abbiano sottoscritto l’accordo aziendale. Il 28 giungo la Confindustria sigla con (tutti) i sindacati

confederali un accordo nel quale, accanto ad alcune importanti norma in materia di rappresentatività, si interviene anche sul sistema della contrattazione ribadendo al centralità del contratto nazionale il quale può delegare alcune materie ai contratti aziendali.
Questi ultimi possono intervenire anche in assenza di espressa delega del contratto nazionale solo in presenza di particolari circostanze (gravi crisi aziendali o importanti investimenti nell’impresa) e solo per particolari materie (prestazione lavorativa, orari ed organizzazione del lavoro).

Nel decreto anticrisi di agosto, il Governo lancia il cuore oltre l’ostacolo ed introduce una norma (l’articolo 8) che sancisce in via legislativa che il contratto aziendale approvato dalla maggioranza dei lavoratori interessati può derogare alla disciplina legislativa o del contratto nazionale di lavoro (articolo 18 dello Statuto dei lavoratori compreso).
Sulla norma del decreto si apre uno scontro durissimo con l’opposizione e con la Cgil (che ne denuncia l’incostituzionalità e preannuncia ricorsi in ogni sede), mentre la Cisl e la Uil non si associano alle proteste. Il 21 settembre, senza alcun apparente motivo Confindustria e sindacati confederali riapprovano l’accordo del 28 giugno. All’accordo aggiungono però una piccola (apparentemente) innocua postilla: una dichiarazione nella quale si impegnano, ed impegnano tutte le articolazioni territoriali delle rispettive organizzazioni (quindi anche le rappresentanze sindacali aziendali) a rispettare il principio in base al quale le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono di esclusiva competenza delle parti (ma quali? Solo le segreterie confederali o anche le rappresentanze aziendali?)

Ma proprio l’ultimo atto della storia, la postilla, pone nel nulla tutto il percorso fatto equivalendo ad affermare in via generale e per impegno solenne di tutti gli attori che l’articolo 8 del decreto non sarà mai applicato. Ma se è così, la reazione di Marchionne non può meravigliare.
Ma come, verrebbe da dire mettendosi nei suoi panni, io avvio una lunga e faticosa battaglia con la parte più conservatrice del sindacato, una battaglia che serve alla mia impresa ma serve anche a tutto il Paese frenato da un sistema di relazioni industriali preistorico, riesco anche a rompere il fronte sindacale ed ottenere l’appoggio della parte riformista del sindacato, riesco anche ad avere il soccorso del Governo che, superando le comprensibili resistenze derivanti dal ricordo del fallimento della battaglia sull’articolo 18 del 2003, introduce una norma di legge che modernizza il nostro sistema e lo rende più flessibile, e cosa fa l’organizzazione che dovrebbe rappresentarmi?
La Confindustria firma un accordo confederale che non ha altro obiettivo se non quello di vanificare i risultati raggiunti. Ma così facendo Confindustria non ha solo scavalcato a sinistra i sindacati riformisti, non ha solo premiato quelli integralisti, non solo ha sbeffeggiato il Governo che aveva ingaggiato sul punto una dura battaglia con la Cgil, ha anche e (dal mio punto di vista) soprattutto sconfessato la mia impresa (che, tra l’altro, è una delle - se non la - più importanti di Italia).

Ma se tutto ciò è vero, non è Marchionne che si è dimesso da Confindustria, è Confindustria che ha espulso Marchionne!
Un’ultima questione rimane da approfondire: perché? In realtà, sono oscure le ragioni della strategia della Marcegaglia. A nostro avviso l’unica ragione plausibile è che la presidente degli industriali, forse per l’imminente scadenza del proprio mandato, forse per il bilancio fallimentare del suo mandato, forse per quel riflesso nazionale che porta molti a cercare di fare il mestiere degli altri, forse per un inconfessabile desiderio di scendere anche lei in politica, stia perseguendo fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni costitutive di un’associazione di industriali. Fini che sono solo ed esclusivamente politici.

Del resto per convincersene basta dare un’occhiata a quel fantastico Progetto per la crescita confezionato qualche giorno fa da Viale Astronomia. Un piano che fra un catalogo di banalità (la riforma delle pensioni) e qualche stramberia (la patrimoniale) non dedica una sola parola su mercato del lavoro e sistema di relazioni industriali. Peccato che siano proprio questi due i fattori che più di ogni altro frenano la competitività del nostro Paese. Ma forse l’Emma nazionale sogna per sé un futuro da Presidente di un governo di salvezza nazionale. E in questa prospettiva è evidentemente essenziale non pestare troppo i piedi alla Susanna nazionale. Ma al di là di ogni valutazione di merito, vorremmo solo avvertire la signora Marcegaglia che il club dei salvatori della Patria è parecchio affollato negli ultimi tempi.

Solo per limitarci al campo degli “imprenditori-salvatori” oltre all’immarcescibile ed inappuntabile Luca Cordero di Montezemolo, abbiamo anche Diego Della Valle ed i suoi tuonanti manifesti, e da ultimo Alessandro Profumo che almeno mantiene quell’understatement che si conviene ad un vero ricco. Attenta Emma, così facendo rischi solo di lavorare per il Re di Prussia. Il ché per una Presidente che era stata salutata come una sana ventata di novità dopo gli anni asfittici ed impomatati del montezemolismo sarebbe un vero paradosso!

Antonio Mambrino
in L’Occidentale

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