Tutti sanno che la disciplina dei licenziamenti italiana è una delle strettoie più pesanti, che rendendo difficilissimo per le imprese ridurre il personale assunto a tempo indeterminato le scoraggia dal farlo anche quando ne avrebbero bisogno. Da anni i riformisti di ogni parte indicano in questo blocco dei licenziamenti la causa del rallentamento delle assunzioni e propongono soluzioni alternative, basate sull’aumento dell’indennità di licenziamento. Ora che il governo, in una situazione eccezionale, ha deciso di agire su questa materia, lasciando peraltro alla contrattazione aziendale, e quindi alle rappresentanze sindacali di fabbrica, il compito di decidere nel merito, si fatica a sentire l’eco delle posizioni riformiste.
Eppure la riforma proposta è strutturale, rispettosa del ruolo contrattuale dei sindacati e delle loro controparti aziendali, ed esclude i casi di maggiore impatto sociale e famigliare. Nel momento in cui la Cgil, tetragona a ogni accordo, scende in piazza in nome di un obiettivo puramente protestatario, è lecito attendersi dai riformisti di sinistra, in particolare da quelli del Partito democratico, un’assunzione di responsabilità. Alcuni già nelle settimane scorse avevano contestato lo sciopero solitario contestandone la tempestività e l’efficacia. Ora il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, che pure in un passato non remoto fu esponente del riformismo, ritorna all’ovile e annuncia la sua adesione alla manifestazione indetta da Susanna Camusso. Altri, che non si sono pentiti tanto rapidamente, non aderiscono, il che è già importante, ma darebbero un contributo culturale più significativo se uscissero dall’equivoco bersaniano secondo cui chiunque attacca il governo, anche se su posizioni antagonistiche, va sostenuto.
Il sindaco di Torino, Piero Fassino, che si era schierato limpidamente con Sergio Marchionne e contro la Cgil nella vertenza aziendale, ora sostiene che la materia del licenziamento dovrebbe essere affidata alla contrattazione tra le parti. Critica il metodo per non entrare nel merito, il che è già qualcosa di questi tempi, ma lascia una sensazione di incompiutezza e di tatticismo. Si possono proporre altre modalità, ma a patto di separarsi dal fronte del rifiuto, che non accetta mai, oggi come in passato, di discutere di nessuna riforma del mercato del lavoro. Se dalle file dei democratici non verranno voci dissonanti e chiare, sarà lecito pensare che in quel partito si può dire di tutto, ma all’atto pratico si è tutt’ora succubi di una specie di cinghia di trasmissione al contrario, che va dalla Cgil al Pd. Proprio mentre si creano le condizioni numeriche per un’alternativa, affossarla dal punto di vista dell’autonomia programmatica sarebbe davvero un errore.
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