Con il referendum dell’8 e del 9 novembre 1987 l’Italia fece il colossale errore di abbandonare l’energia nucleare. La legge 8/1983 che quel referendum abrogava, tendeva ad assicurare contributi finanziari alle amministrazioni locali che accettavano l’insediamento di centrali nucleari. Quel sì al referendum, quindi, non comportava necessariamente lo stop al nucleare. Perciò, tale scelta è da ascrivere a una classe politica vile che si fece sopraffare dall’ondata emotiva post-Chernobyl che alimentò la demagogia verde, con il Pci che mutò posizione rispetto al nucleare anche perché avvalorarne la pericolosità significava scagionare il sistema sovietico a cui aderiva.
In ogni modo, la scelleratezza di quella scelta è riscontrabile facendo il raffronto tra Europa Occidentale e Italia in merito al contributo percentuale delle varie fonti energetiche alla produzione elettrica. La prima vede un 52,5% di energia fossile contro l’82% dell’Italia, un 15% dell’idroelettrico contro il 12% dell’Italia, il 5% di rinnovabili contro il 6% dell’Italia e il 27,5% di nucleare contro lo zero dell’Italia.
Gli antinuclearisti ci raccontano favole sull’eolico e il fotovoltaico. Peccato che il primo contribuisca a poco più dell’1% della nostra produzione di energia elettrica, mentre il secondo allo 0,04%. E il tutto con incentivi pubblici da capogiro. Gli ambientalisti ci raccontano sempre che il sole, è una fonte di energia gratuita e inesauribile. Peccato che ciò che conta per una fonte di energia è la potenza, che è data dal rapporto tra quantità di energia trasferita e tempo di trasferimento. E in questo, sia l’energia solare, sia quella eolica possono dare contributi trascurabili. Facendo un raffronto tra nucleare ed energie rinnovabili, con cui si vorrebbe coprire il 10% del fabbisogno elettrico nazionale (4 Gigawatt di potenza), l’esperienza con i parchi eolici del mondo ci dice che la potenza erogata è 1/6 di quella installata, per cui dovremmo installare in un territorio di almeno 2000 chilometri quadrati circa 24000 (6X4000) turbine, che rimarrebbero in esercizio per meno di 20 anni, al costo di 1 milione di euro l’una (24 miliardi di euro totali), mentre la stessa energia verrebbe prodotta da 4 centrali nucleari che rimarrebbero in esercizio per ben 40 anni, al costo di 2,5 miliardi di euro l’una (10 totali), in 1 chilometro quadrato totale di estensione.
Riguardo al fotovoltaico, per produrre il 10% del nostro fabbisogno energetico, ossia 4 Gigawatt annui, dovremmo installare pannelli solari in un territorio di almeno 200 chilometri quadrati, che rimarrebbero in esercizio per meno di 20 anni, al costo totale di 240 miliardi di euro, dato da 4 Gigawatt di energia elettrica annua moltiplicata per 60 miliardi di euro. E con i pannelli solari che richiederebbero una pulizia costante e assai costosa ogni settimana, senza dimenticare quanto sia inquinante il processo di smaltimento dei pannelli una volta dismessi. Quanto alle scorie radioattive, ammettiamo che l’intero fabbisogno elettrico italiano (40 Gigawatt) venga coperto dal nucleare. Questo genererebbe un quantitativo di combustibile spento per un volume annuo di 100 metri cubi di rifiuti, problema del tutto trascurabile se si tiene conto che ogni anno l’Italia affronta con successo (tranne a Napoli e Palermo) il problema della gestione di 50 milioni metri cubi di rifiuti solidi urbani e 5 milioni metri cubi di rifiuti tossici. Di questo combustibile, il 95% è U-238, che non è rifiuto prodotto, in quanto presente naturalmente sulla terra ed estratto dal sottosuolo. È quasi stabile e non crea alcun pericolo. Le scorie propriamente dette sarebbero il 5% rimanente, ossia 5 metri cubi all’anno. Inoltre, a differenza di quelli tossici i rifiuti radioattivi tendono a perdere pericolosità man mano che decadono. I detrattori del nucleare lamentano il fatto che ciò accade nel giro di diversi secoli, salvo trascurare il fatto che i rifiuti tossici la loro pericolosità la mantengono per sempre. In ogni modo, i rifiuti radioattivi vengono inglobati in manufatti solidi stabili. Per quelli a bassa attività che non sviluppano calore si usano matrici di calcestruzzo, mentre quelli ad alta attività che sviluppano calore sono miscelati con materiale vetroso fuso, che una volta solidificato diventa una matrice vetrosa, dura come la roccia, infrangibile, insolubile e a prova di corrosione. Quando è ancora allo stato fuso, la miscela viene versata in appositi contenitori sigillati d’acciaio inossidabile, anch’essi a prova di corrosione. Gli effetti radiologici all’esterno di depositi costruiti appositamente con criteri di sicurezza sono nulli. I timori a riguardo sono del tutto fuori luogo, specie considerando che un distributore di carburante di città distribuisce in un giorno dosi di veleni quante un deposito superficiale di rifiuti radioattivi non ne distribuirà in 300 anni e che nessuno trova alcunché da dire quando una qualsiasi cisterna contenete liquido infiammabile passa per un centro cittadino.
A dire il vero, il quesito referendario prevede una sorta di stop alla definizione e all’attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, il che significa che non avrebbe il potere di bloccare per sempre l’adozione del nucleare in Italia, ma lo stesso discorso valeva per il referendum del 1987. Oggi come allora, la vittoria dei sì verrebbe presa a pretesto per rinunciare al nucleare nell’illusione che saranno l’eolico e il fotovoltaico a salvarci, quando l’unico sole che ci può salvare è quello che invoglia gli italiani ad andare in spiaggia e disertare così le cabine elettorali.
Carlo Zucchi La Voce del 10/6/2011
Per queste ragioni l’indicazione che noi diamo agli elettori che si riconoscono nel Popolo della Libertà è quella di rigettare le proposte conservatrici dei referendari non partecipando al voto per invalidare alla radice una consultazione strumentale e sbagliata.
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