Riescono ad essere prevedibili e noiosi anche quando si dividono, quando affrontano lo psicodramma della frammentazione e del vuoto di leadership, che in altri contesti ha sempre qualcosa di spettacolare. Bersani è una gran brava persona, gli spezzoni di corrente che partecipano o partecipavano alla sua coalizione elettorale pullulano di figure rispettabili, cattolici modernisti e riformatori, post comunisti e amministratori che sanno il fatto loro, ma il Pd è Veltroni.
Veltroni, che fu chiamato per salvare il progetto e dargli un’anima quando tutto sembrava crollare addosso alla vecchia nomenclatura dei Ds e della Margherita, tradì se stesso e i presupposti della sua elezione via primarie per scarsa fantasia, scarso coraggio.
Prima fece la disastrosa alleanza elettorale con Di Pietro, poi si intruppò in un “caminetto” dei capi, si negò scelte radicali e significative di lotta interna e di riforma culturale per affermare il suo modello di partito, fino al clamoroso abbandono; ma senza la vocazione maggioritaria, cioè senza l’idea di costruire il fulcro di un’alternativa di governo, e di farlo con una struttura ad arcipelago, capace di riunire in una nuova forma politica post partitica le energie sparse di una sinistra postcomunista e post democristiana alla deriva della storia.
Il Pd non esiste, è un ferrovecchio mascherato da novità, è un coacervo di contraddizioni su ogni tema, economia, società, istituzioni, politica estera, questioni bioetiche, azione parlamentare e politica. Senza quel tanto di anima che era implicito nella scelta di Veltroni e, al di là della retorica della bella politica, nel progetto di ingaggiare Berlusconi sul terreno di un sostanziale bipartitismo, di un bipolarismo legittimato solo e soltanto dal consenso elettorale, senza tutto questo, come si vede, il Pd è una stella spenta o una parata di vecchie leadership, rispettabili, che hanno avuto un ruolo nella storia del paese, ma inefficaci e incoerenti dentro lo stesso involucro.
Stanno lì a litigare su cose ovvie, e le rendono serpentine, velenose, impossibili.
Le primarie? Ma è ovvio che sono il bene legittimante, l’unico, di cui dispone oggi il Pd: si dovrebbe passare dalle primarie “private” all’iniziativa per una riforma istituzionale che estenda quel metodo, lo leghi alla scadenza fissa dei mandati e a una generale riforma dell’assetto politico di sistema. Invece stanno lì a cincischiare, qui si fanno, qui no, e se si fanno e si perdono soffrono come bambini insoddisfatti e capricciosi.
Le alleanze? Sono tattica parlamentare e forse elettorale, e invece diventano costitutivi elementi di identità per le correnti coalizzate le une contro le altre, tutti a ricasco di un terzo polo che non esiste.
Mirafiori? Dovevano prendere il dirigente Fassino, dopo la sua dichiarazione per il sì, e associarlo al sindaco Chiamparino in una commissione con pieni poteri di sostegno alla Cgil di Camusso e di attacco creativo e significativo alla Fiom pietrificata di Landini in nome di una campagna per nuovi criteri di rappresentanza e per un aumento generalizzato dei salari. Invece oscillano e non si fanno capire nemmeno da se stessi, blaterando dello scambio tra salari e diritti.
Con gli scampoli moralistico-costituzionali del pensiero di Stefano Rodotà non si fa un partito che coalizza interessi e concorre per il potere in una società moderna, al massimo un club che mastica argomenti del secolo scorso.
Giuliano Ferrara - Il Foglio 14/1/2011
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