venerdì 16 luglio 2010

“Quando in Fiat ammazzavano chi lavorava”. Una cronaca vera e cruda di Giampaolo Pansa che racconta quello che accadeva alla fine degli anni ‘70 a beneficio di chi ha la memoria troppo corta o non vuole ricordare

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Tra il ’79 e l’80 Mirafiori diventò uno stabilimento ingovernabile. Vi accadeva di tutto, tranne quello che si dovrebbe fare in una fabbrica
Leggo le cronache di quanto accade alla Fiat di Melfi e di quel che potrebbe accadere alla Fiat di Pomigliano d’Arco, poi mi faccio una domanda. Qualcuno si ricorda di ciò che avveniva alla Fiat verso la fine degli anni Settanta? Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, certamente sì. Lui è nato nel 1950 e ha iniziato la carriera in Cgil nel 1974, nella casa editrice del sindacato e poi nell’ufficio economico. E nel 1979, un anno cruciale per la Fiat come vedremo fra un istante, divenne segretario generale aggiunto dei poligrafici. Se la memoria non m’inganna, era un giovane intelligente, colto, che leggeva molto. Mi pare fosse socialista e amico di Walter Tobagi. Dunque, il mio racconto non è per Epifani. Bensì per i tanti che praticano la dimenticanza.
Un biennio di anarchia e di estremismo rosso
Il biennio decisivo per la Fiat ebbe inizio con il 1979. Mirafiori, il cuore produttivo dell’azienda, era diventato uno stabilimento ingovernabile. Una gigantesca fabbrica dominata dall’anarchia e dall’estremismo rosso. Allora lavoravo a “Repubblica” ed Eugenio Scalfari mi chiese di andare a Torino per raccontare quanto stava accadendo. C’ero gia stato più volte, ma soltanto per scrivere delle Brigate rosse che, due anni prima, nel novembre 1977, avevano assassinato Carlo Casalegno.
Eravamo nell’ottobre 1979 e il giorno 8 la Fiat aveva licenziato sessantuno operai, considerati tra i più violenti. In città tirava un’aria pessima, soprattutto per l’offensiva del terrorismo.
Diciassette giorni prima, il 21 settembre, le Br avevano ucciso sotto casa l’ingegner Carlo Ghiglieno, responsabile della pianificazione del gruppo auto. Infine non si contavano i piccoli capi Fiat gambizzati o minacciati. Decisi di raccontare l’inferno di Mirafiori raccogliendo la testimonianza di tre protagonisti: un capo squadra, uno dei licenziati e un operaio iscritto al Pci. Il primo racconto fu devastante, almeno per i lettori di “Repubblica”. Gli rivelò un mondo che non conoscevano. Quello di una grande azienda italiana sottratta alla legge e in mano a bande di teppisti interni, in grado di fare quel che volevano. Il mio testimone stava nei gradini bassi della piramide gerarchica Fiat. Lui me la descrisse così: l’operaio, l’intermedio, il capo squadra, il capo reparto, il capo officina e su su fino al direttore. In quell’anno, guadagnava 600 mila lire al mese. E aveva alle spalle vent’anni di lavoro in Fiat. Mi disse: «In Fiat ho imparato tutto, la Fiat è stata la mia prima famiglia. Oggi per me non è più niente. Oggi sto a Mirafiori dalle nove alle undici ore al giorno. E ogni giorno mi domando: a fare che cosa?». Per cominciare, quel caposquadra mi spiegò con chiarezza semplice com’era l’universo degli operai Fiat: «Su cento operai di Mirafiori, trenta non vogliono saperne né di
sindacato né di niente, per loro la fabbrica è soltanto un posto dove purtroppo bisogna faticare e basta. Altri trenta vogliono un politica sindacale democratica e giusta. Venticinque sono in balia del primo vento che tira e non sanno da che parte stare. Su questi premono gli ultimi quindici: sono gli estremisti che cercano ogni occasione per rompere i coglioni, per non lavorare e, soprattutto, per non lasciar lavorare nessuno».
Capo, non rompere o ti facciamo sciopero
Osservai: «Quindici su cento sono pochi, in fondo». Lui mi replicò, con sorriso amaro: «Però bastano per far casino, se gli altri operai non reagiscono». Il “casino” iniziava con le minacce al capo squadra, neanche fosse la controfigura dell’avvocato Agnelli. Capo non rompere o ti facciamo sciopero.
Capo sei un bastardo, sappiamo dove stai e ti prenderemo fuori dalla fabbrica. Capo sei un fascista, ti faremo camminare in carrozzella. Capo hai delle belle gambette, ci tieni a conservarle? Capo non fare rapporto in direzione, altrimenti…
Poi si passava al corteo interno a Mirafiori e alla caccia al capo. Qualcuno si nascondeva o tagliava la corda, come mi disse d’aver fatto il mio testimone. Ma chi veniva catturato, doveva marciare in testa al corteo. Con la bandiera in rossa in mano. Sputacchiato, malmenato, vilipeso. E la sua via crucis riprendeva appena ritornato a casa. Con le telefonate in stile mafioso: «Cerca di stare dalla parte degli operai, altrimenti la pagherai cara!». O con le minacce anonime alla moglie: «Quel porco di suo marito prima o poi glie lo facciamo fuori!».
«È una vita questa?» mi domandò il mio testimone. «Il giorno che è stato ammazzato l’ingegner Ghiglieno, ci siamo trovati in un gruppo di capi e ci siamo chiesti: che cosa facciamo? Fino a quando durerà? Dobbiamo ancora adoperarci per tenere in piedi quest’azienda? Ci siamo risposti di sì. Ma era chiaro che in tutti stava prevalendo la voglia di mollare. E molti lo stavano già facendo, lasciando la Fiat per cercare un lavoro in fabbriche più piccole e meno infernali». Mi domandai se era troppo dire che Mirafiori si fosse mutata in un inferno. Ma il racconto del mio capo trovò una conferma puntuale nella descrizione che, tre giorni dopo, mi offrì l’operaio iscritto al Pci.
Torino Mirafiori, tra inferno e bazar
Mirafiori era diventata una città dove ogni cosa sembrava lecita. Per cominciare, era un mercato delle merci più varie. Sigarette di contrabbando. Collant per signore. Penne biro. Cravatte. Apparecchi radio. Musicassette. «L’unica merce che non si vende sono le locomotive, ma soltanto perché non è possibile trasportarle in fabbrica». C’era chi entrava nel turno del mattino con un vassoio di trenta brioches e nella pausa andava per i reparti a venderle. Un altro operaio, uno delle Presse, poi fra i sessantuno licenziati, si metteva a cucinare. La chiamava “la mensa alternativa”, due mila lire a pasto. Ma l’attività più praticata era quella di scopare con una delle tante donne che lavoravano a Mirafiori. L’operaio Pci mi disse: «Quando la paglia sta accanto al fuoco, succede sempre. Uno delle linee si prende i quaranta minuti di sosta tutti assieme, si cerca una ragazza e il più è fatto. Un posto per chiavare lo si trova sempre a Mirafiori». Il capo squadra mi aveva già messo sull’avviso: «Questa fabbrica è diventata anche un bordello. Nelle vetture e nei cassoni troviamo sempre preservativi usati. Devo fare la guardia anche a questo?». Il mio capo aggiunse: «Guardi che non sono di destra. Anzi! Ho un diploma, cerco di ragionare, ogni giorno per tenermi informato leggo due quotidiani, ‘La Stampa’e ‘l’Unità’. So bene che, per molti anni, ai tempi di Valletta, l’operaio è stato intimidito. E capisco che al pugno duro di una volta non è giusto ritornare, e comunque oggi sarebbe impossibile. Ma adesso i tanti che vogliono lavorare non respirano più!».
«Mia moglie mi suggerisce di licenziarmi e prima o poi lo farò», mi confessò il mio testimone. «Del resto, che senso avrebbe rimanere in Fiat? Questa fabbrica è un ammalato che rischia di morire da un momento all’altro. E noi stiamo qui a guardarla tirare le cuoia, dirigenti e capi, tutti impotenti nello stesso modo. In Fiat non comanda più nessuno, mentre fuori le pistole sparano».
«Ogni giorno, quando entro a Mirafiori,mi sembra di andare a un posto di combattimento. Per questo mi sento un uomo umiliato», mormorò il capo squadra. «Sì, umiliato e prigioniero nella gabbia di Mirafiori. L’unico desiderio che ho è di uscire dalla gabbia. Uscire e poter dire, finalmente: adesso respiro».
Non so quale decisione prese il mio testimone. Ma conosco, come tutti, quel che accadde dopo. L’anno successivo, la Fiat sembrò morire sotto il lungo blocco deciso dalla Triplice sindacale.
Quello benedetto da sant’Enrico Berlinguer, uscito dal santuario delle Botteghe Oscure per correre ai cancelli di Mirafiori. Il blocco durò trentacinque giorni. Poi la Fiat si salvò, grazie a un gruppo di manager tosti, guidati dal duro Cesare Romiti. E la marcia dei Quarantamila, il 14 ottobre 1980, fece il resto.

Le storie del passato possono servire come monito per il presente? Mi auguro di sì. Ma ammetto che la mia vocazione all’ottimismo viene messa a dura prova, ogni giorno.
Giampaolo Pansa

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