giovedì 8 luglio 2010

Il federalismo è l’ultima spiaggia

gallery_4280_880_23698 Il federalismo fiscale non è un pallino della Lega: è una necessità imposta dalla riforma costituzionale varata alla fine degli Anni 90 dal centrosinistra (la cosiddetta riforma Bassanini), che ha introdotto nella Costituzione il principio di sussidiarietà e ridisegnato i poteri del governo centrale e delle amministrazioni periferiche. E’ la più importante ristrutturazione istituzionale dal dopoguerra in poi, una svolta di ammodernamento positiva benché approvata con soli 4 voti di maggioranza (se Berlusconi facesse una cosa del genere oggi verrebbe giù il Paese, altro che terremoti).
Dunque, la stessa Bassanini prelude al federalismo fiscale, inteso come capacità delle regioni di governare anche le proprie risorse, fatto salvo il principio di solidarietà nazionale. La riforma ha dato alle regioni i poteri ma non i soldi, che arrivavano da Roma senza controllo: una sorta di rimborso a pie’ di lista. Le regioni presentavano il conto e l’amministrazione centrale saldava. Si è creata una spirale per cui le regioni virtuose hanno contenuto i costi, assunto poco personale, sviluppato le competenze con responsabilità; altre regioni hanno invece sperperato lo sperperabile, tant’è che ogni anno i governi (l’hanno fatto sia Prodi sia Berlusconi) devono commissariare qualche gestione sanitaria (tutte localizzate nel Centro-Sud) per tappare i buchi di bilancio.

Il federalismo fiscale imporrà invece alle regioni un principio di responsabilità: non si potrà più decidere (con leggi regionali) spese e investimenti che poi Roma salderà (con i soldi di tutti). Verranno introdotti i criteri del “costo standard” per le prestazioni sanitarie (anziché del costo storico) e il principio del “fallimento politico“: gli amministratori incapaci non potranno ricandidarsi. Non si tratta di una rivolta del Nord contro il Sud, ma di un intervento per riportare sotto controllo la spesa pubblica che si è enormemente dilatata con il progressivo trasferimento dei poteri alle periferie: un passaggio previsto dalla Costituzione (e non una richiesta leghista).

Le polemiche sulla Padania sembrano pretestuose.  Oggi la Padania non esiste come nazione, perché il 30 per cento degli elettori del Nord che votano Lega lo fanno per il programma economico (meno trasferimenti al Sud), istituzionale (meno burocrazia centrale), di ordine pubblico, e per la capillare presenza del Carroccio sul territorio. La Padania è un contenitore simbolico che unifica queste istanze.
Tuttavia sta emergendo drammaticamente il nodo dell’incapacità di risolvere i problemi del Sud. Nessuno, nei 150 anni di unità nazionale, è stato in grado di porvi rimedio. Per questo non è della Padania che ci si deve occupare ma del Mezzogiorno. Se non si creano in fretta le condizioni per uno sviluppo autonomo del Sud saranno guai. Ma qui ci si scontra con l’abulia delle classi dirigenti meridionali. Nelle regioni più disastrate non è in atto alcun piano di bonifica radicale delle istituzioni, niente che lasci intravedere una reale disponibilità a mutare comportamenti e abitudini. Nessuno crede che i servizi pubblici al Sud cesseranno, a breve, di essere scadenti e molto più costosi che in Lombardia o in Emilia; che tante scuole e università del Sud smetteranno di distruggere capitale umano anziché crearlo o che le amministrazioni locali, con la loro inefficienza,  cesseranno di frenare lo sviluppo.
Questi sono i temi da affrontare concretamente, per i quali il federalismo fiscale è probabilmente l’ultima spiaggia.

Nessun commento:

Posta un commento