mercoledì 3 febbraio 2010

Uno spettacolo molto brutto e pericoloso

Traiamo da Il Riformista un articolo di Peppino Caldarola sullo squallido spettacolo offerto dai giudici nelle cerimonie di apertura dell'anno giudiziario. Caldarola è un uomo di sinistra, sicuramente non vicino a noi. Proprio per questo le sue considerazioni dovrebbero fare riflettere anche alcuni nostri attenti lettori che, novelli Savonarola, amano brandire questi temi come una clava contro il Governo.

La scena si è ripetuta in quasi tutte le Corti d'appello italiane, tranne in alcuni tribunali del Sud e della Sicilia. I magistrati hanno abbandonato l’aula nel momento in cui ha preso la parola il rappresentante del Governo. Pm e giudici molti noti al grande pubblico e giovani rappresentanti dell’ordine giudiziario con le loro palandrane nere e la Costituzione in mano se ne sono andati per non ascoltare le parole del rappresentante dell’esecutivo. Una protesta clamorosa, e non nuova, che ha rimesso al centro del dibattito il tema del pessimo rapporto fra magistratura e politica.
Diciamolo subito. È stato un brutto spettacolo. Fra i tanti modi che hanno i magistrati a disposizione per manifestare il loro dissenso dalle scelte del Governo e del Parlamento l’abbandono dell’aula nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario è il peggiore e il più pericoloso.
Ci sono tre critiche da fare. La prima è che rifiutarsi di ascoltare le ragioni dell’avversario (ma è normale in un Paese civile che governo e giustizia siano avversari?) rappresenta una degenerazione polemica che produce nuovi conflitti. Il secondo è il venir meno di un comportamento istituzionale. La magistratura non è una corporazione, anche se molti suoi atteggiamenti fanno pensare a questa deviazione, ma una istituzione dello Stato. Nel momento solenne in cui si celebra il valore della funzione giurisdizionale, l’abbandono delle aule retrocede il ruolo del magistrato a quello del dissidente professionale e istituzionale producendo così una ferita che sarà sempre più difficile sanare. Il terzo è che il messaggio lanciato alla pubblica opinione è devastante. Se i magistrati invitano alla disobbedienza civile non riconoscendo autorevolezza, anche nel contrasto, a uno dei poteri dello Stato siamo di fronte a un appello alla ribellione che se venisse accolto porterebbe questo Paese di fronte a uno stadio di guerra civile non conclamata.
Con quale autorevolezza potranno questi stessi magistrati decidere su altri conflitti che dovessero sorgere fra privati cittadini e rappresentanti della cosa pubblica? Quante altri gesti di disubbidienza potranno essere affidati alle cure di magistrati che spesso sono severi con i più diseredati e indulgenti con se stessi? Ieri abbiamo ascoltato anche parole serie e severe. L’invito che è echeggiato in alcune sedi giudiziarie alla sobrietà di comportamento dei rappresentanti dell’ordine giudiziario non risponde, infatti, a una esigenza di fair play ma riguarda direttamente il ruolo istituzionale della magistratura. Che credibilità può avere una magistratura che si piega a diventare uno dei tanti soggetti politici e che invade il campo della politica e spesso del Parlamento?
Da anni assistiamo a questo protagonismo giudiziario che non ha eguali in altri Paesi civili. Non stiamo parlando del ping-pong di accuse fra indagati celebri e magistrati inquirenti. Questo fa parte della polemica, diciamo così, normale. Anche Barack Obama non lesina giudizi severi verso quei corpi dello Stato che lo contrastano. Il conflitto fra chi governa e chi deve esercitare il controllo di legalità è nell’ordine naturale delle cose. La questione che vogliamo porre è un’altra. Fin dove deve spingersi un'istituzione dello Stato nell’affermare la propria supremazia rispetto alle altre istituzioni? La risposta dovrebbe essere scontata. Non dovrebbero esserci invasioni di campo né conflitti di ruolo né supremazie. Eppure in Italia il Csm viene regolarmente convocato ogni volta che il Parlamento affronta una discussione attorno a misure sulla giustizia con un giudizio preventivo assolutamente inopportuno. Eppure questo è un Paese che ha dimostrato di avere un bilanciamento di poteri e un sistema di garanzie funzionanti. Una è il Capo dello Stato, l’altra è la Corte costituzionale. La terza è la pubblica opinione.
Noi abbiamo criticato le recenti misure approvate dal Senato sul processo breve e avvertiamo il pericolo che una legislazione ad personam possa stravolgere il buon funzionamento della giustizia. Tuttavia non si può sfuggire a due considerazioni. La prima è che il sistema giudiziario, non solo per colpa di governo e Parlamento, è a livello dei più disastrati paesi del Terzo Mondo. La magistratura con le sue battaglie corporative ha una gravissima responsabilità nell’arretratezza del pianeta giustizia. La seconda è che il cortocircuito fra politica e giustizia porta a un incancrenirsi della situazione e a un perenne braccio di ferro. Avremmo bisogno che venisse ricostruito un terreno di confronto. Il gesto dell’abbandono delle aule giudiziarie invece cristallizza lo scontro e provoca ulteriori irrigidimenti.
I magistrati italiani devono decidere come vogliono essere rappresentati. Se scioperano come i metallurgici, che purtroppo hanno meno udienza, se abbandonano le aule di giustizia (che differenza c’è fra il gesto di ieri e quel magistrato sanzionato con l’espulsione che ha non ha voluto fare il suo lavoro in presenza del crocefisso?), si comportano come dipendenti statali. E se sono dipendenti statali allora non hanno diritto all’indipendenza, all’autonomia ma devono essere subalterni a una gerarchia pubblica che li sovrasta. Se sono, come sono e come vogliamo che continuino a essere, un pezzo dello Stato devono comportarsi di conseguenza e avere rispetto di se stessi e delle altre autorità dello Stato nonché della pubblica opinione. Quelle componenti interne che li incitano alla rivolta, e quei partiti che ingrassano sul mito dei giudici, stanno distruggendo la fragile intelaiatura dello Stato. Una brutta giornata per la democrazia. Speriamo che sia l’ultima.

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