mercoledì 2 maggio 2012

Invece di chiedere crescita e libertà economica si ostinano a difendere una legislazione invecchiata male

lavoro“In Italia siamo tanto pronti a batterci per le tutele formali del lavoro, per i diritti del lavoratore, quanto pronti a chiudere non uno, ma due occhi su tutto quel lavoro irregolare e su tutte quelle persone che il lavoro non ce l’hanno”. Così ricordava (cito a memoria) Pietro Ichino in una conferenza qualche mese fa. Quello che dovremmo ricordare oggi, nella Festa dei lavoratori, è che tutte quelle tutele formali contenute nelle leggi del lavoro, create per difendere il lavoratore dalla disoccupazione, garantirgli un salario non troppo basso e difenderlo dai “ricatti” del datore di lavoro, semplicemente non sono bastate.
Non sono bastate per difendere dalla disoccupazione, visto che solo il 56,9% degli italiani in età da lavoro è occupata. Non sono bastate per garantire un salario alto, visto che  secondo l’OCSE i salari netti degli italiani sono fra i più bassi in Europa. E non sono bastate per difendere i lavoratori dai ricatti del datore di lavoro, visto che, ad esempio, gli abusi nell’uso di contratti di lavoro sono stimabili in numero enorme.

La tutela reale al lavoratore, in termini di occupazione e di buoni salari, deriva dalla crescita economica. La crescita economica è la condizione necessaria perché si creino nuovi posti di lavoro. E maggiori opportunità di lavoro significano anche una maggiore possibilità per il lavoratore di rifiutare condizioni di lavoro svantaggiose. Al contrario, oggi, troppi lavoratori si trovano in una situazione per cui, pur di avere un lavoro, devono accettare qualsiasi condizione (ad esempio: aprire una partita IVA per fare un lavoro da dipendente, o firmare già al momento dell’assunzione la propria lettera di dimissione con la data lasciata in bianco).

Parlando di temi occupazionali, viene spesso fatto il confronto tra l’Italia e i paesi del Nord Europa dove sono stati raggiunti tassi occupazionali fino a quasi venti punti percentuali più elevati di quelli italiani (74,1% in Svezia, 69% in Finlandia e 56,9% in Italia, nel 2011). Un confronto che viene ricordato di meno è quello tra gli indici che misurano in questi Paesi la diversa libertà economica, ingrediente essenziale della crescita economica. Si dirà che di differenze tra Italia e paesi nordici ce ne sono tante;  questa però è troppo profonda per passare in secondo piano. Tra le tante classifiche, l’indice dell’Heritage Foundation per il 2012 indica che Finlandia e Svezia raggiungono rispettivamente la posizione 17 e 21 per libertà economica (i cui parametri principali sono: rule of law, governo limitato, efficienza nella regolamentazione e apertura dei mercati) mentre l’Italia è 91, dopo l’Azerbaijan, ma prima dell’Honduras. L’aumento dell’occupazione e la crescita economica non possono insomma fare a meno della libertà dell’iniziativa economica degli individui, libertà che deve essere reale e non soltanto scritta sulla carta costituzionale.

La mia impressione è che ancora troppe persone, a cominciare dai rappresentanti dei lavoratori, invece di chiedere crescita e libertà economica, si ostinino a difendere una legislazione sul lavoro vecchia di decenni e che semplicemente ha dato prova di non essere sufficiente a garantire quegli obiettivi di cui si faceva paladina. Quest’anno il Lavoro, per la sua festa, vorrebbe avere in regalo meno leggi e più crescita economica

Emilio Rocca
Istituto Bruno Leoni

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