La favola bella è finita? Forse si. Resta la pulsione acchiappatutto di una sinistra che governare non può e lasciar governare non vuole. L’eterna sinistra all’italiana, mai andata a Bad Godesberg per ripulirsi dalle incrostazioni massimaliste e dalle velleità rivoluzionarie residuate dalla novecentesca società delle masse. Mai disposta a correre il rischio di un nuovo inizio “socialdemocratico”, per sfiducia verso la propria capacità di sintonizzarsi per un tratto di strada su menti e cuori della maggioranza sociale, e perciò timorosa di fare le spese della rottura a sinistra che è sempre il prezzo del cambiamento.
Una sinistra avvezza a surrogare il deficit di appeal democratico con il potere di organizzare il sabotaggio del governo in carica per metterlo nell’impossibilità di fare presa sulla realtà del Paese. È stata questa la storia infinita dell’anomalia italiana, dal tramonto dell’età emergenziale di De Gasperi a Berlusconi. Stavolta è sembrato possibile scampare alla punizione dei mercati con un tuffo nel patriottismo di un governo di tregua, sorretto dalla rinuncia al sacro egoismo partitico. “Tutti per l’Italia”. Ma era troppo chiedere alla sinistra di Bersani.
È bastata la ricomparsa dell’art.18 per eccitare le frange lunatiche della sinistra con il ricordo della vittoriosa battaglia d’arresto scatenata, sulla pelle del Paese, contro il secondo Governo Berlusconi. La tentazione di ripetere il colpo contro la riforma del mercato del lavoro azzardata dal governo Monti si è fatta irresistibile, e ha trascinato con sé il partito di Bersani, in un gioco d’anticipo volto a sfruttare l’occasione delle elezioni amministrative per ipotecare il risultato delle politiche che seguiranno.
Se il governo dei professori non fosse stato spossessato del ricorso all’approvazione per decreto della riforma, e se non si fosse trovato conveniente sovreccitare il clima con lo svolgimento puntuale di una tornata amministrativa che sarebbe stato ragionevole rinviare, le cose avrebbero preso un’altra piega. Così non è stato e il “caveat” lanciato da Seoul dimostra che Monti ha mangiato la foglia. Il suo rifiuto di ridursi a trastullo delle consorterie partitiche, ha il senso di un monito. Ricorda la reazione di De Gaulle quando si cercò di negargli i pieni poteri richiesti per salvare la Francia: “Se è così non mi resta che tornare a Colombey e chiudermi nel mio dolore, lasciandovi alle prese con i paracadutisti”. Solo che in questo caso a calare dall’alto sui profittatori dell’emergenza sarebbe lo spread manovrato dai mercati finanziari.
L’inciampo dell’art.18 non è l’unico elemento comune sul cammino di Monti e Berlusconi: decisiva sarà la sfida per il taglio della spesa pubblica, necessario per contenere la pressione fiscale. Senza di che ogni speranza di ripresa economica sarà strozzata in culla dalle tasche vuote dei tartassati.
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