Ci avviamo verso un periodo di libero disordine. Nessuno troverà mai la proporzione perfetta, la corrispondenza celeste in fatto di liberalizzazioni. Non la troverà il governo con i suoi imminenti decreti legge, non la troveranno le corporazioni che già parlano di serrate e manifestazioni ed elaborano un manifesto dell’interdetto e della protesta dura, i sindacati che sono alle prese con la flessibilità in uscita dal lavoro e altre vie per ridurre l’inoccupazione e la precarizzazione abusiva, la Confindustria che non è proprio un soggetto innovatore per sua natura, l’amministrazione pubblica da sempre tenutaria dello status quo, le banche in bilico sull’abisso del credit crunch, e i molti altri poteri in gioco. Sarà un periodo agitato, con fenomeni di rivolta in nome di interessi minacciati, di posizioni anche di piccola rendita rese all’inizio più insicure, e comunque il cambiamento del già noto, del già sperimentato, è qualcosa che produce ansia sociale, agitazione, rabbia, riflessi di tipo chiuso e arcigno. Ciascuno tirerà fuori il suo argomento, e il principe degli argomenti è stato già anticipato da posizioni di destra liberale, più o meno dottrinarie, che parlano di criminalizzazione della ricchezza e di intollerabile invadenza dello stato, quando si tratti di lotta all’evasione fiscale; e di nuovi penosi sforzi richiesti ai piccoli quando invece ai grandi campioni dell’economia di semi-monopolio è riservata un’attesa in certi casi anche troppo prudente, sottraendo i colossi da liberalizzare e forse privatizzare dalla lista delle priorità.
La battaglia delle liberalizzazioni deve essere condotta, necessaria e urgente com’è la rottura della pietrificazione sociale di questo paese, con oculatezza, risparmio di prediche e di inganni, senso della realtà, nessun dottrinarismo liberale, molto pragmatismo. Si farà un passo avanti, poi mezzo passo indietro, e poi a zig zag si cercherà di introdurre mobilità, variabilità, concorrenza, competizione e nuovi modelli di business in molti campi. Questa, almeno, è la strategia che promettono i professori al governo e il signor Preside. Ed è la strategia giusta, soprattutto se si partirà con un fronte allargato, se si farà percepire al paese che non si tratta di piccole rivalse o di rancorosi tentativi di penalizzazione ai danni di questi o di quelli, ma di un piano per rilanciare il lavoro, l’investimento, i consumi e alla fine il generale sistema di produzione della ricchezza in un paese che da anni produce soprattutto spesa e debiti, con conseguenze amare per tutti. Una licenza in più ai tassisti vuol dire che sono liberi di usarla, non obbligati, e che se la mettono sul mercato, e il mercato la valorizza perché c’è lavoro, allora non avranno ragione di lamentarsi di un’apertura dell’accesso alla loro professione, compensata da un bonus importante a chi già è dentro il recinto e ha pagato per esserci con soldi e lavoro. Lo stesso per le farmacie, i carburanti e altri sistemi di trasporto e commercializzazione dei beni e dei servizi. Più alta e generalizzata sarà la sfida riformatrice all’immobilismo, più il disordine prossimo venturo potrà essere, come si dice, non biecamente difensivo, non arroccato, non violento e interdittivo, ma creativo.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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