Mario Monti e i suoi stanno facendo un lavoro sporco ma necessario. Mangiano cotechino e lenticchie a spese loro, e per il resto, a parte la demagogia sulle banche, che sono avide e usuraie quanto si voglia ma sono le nostre banche, le banche socializzate dell’economia globale, quelle da cui dipendono anche le pensioni e gli stipendi e le imprese, fanno o promettono a breve cose che per trent’anni quelli come noi hanno detto che si dovevano fare, dalle pensioni di anzianità superate alle liberalizzazioni da varare con un taglio del nodo di Gordio. Restano molti dubbi, a parte il peso dell’obiezione di principio sulla legittimità di un governo tecnocratico, intorno alla caratura dell’operazione, all’efficacia del governo del preside. Far crescere un paese e rilanciarlo in una tempestosa crisi finanziaria mondiale ed europea, superando in breccia il rigore che al tempo stesso salva e uccide, e fare tutto questo senza la legittimazione di una scelta politica decisa dai cittadini, dopo una discussione libera e feconda che vara una maggioranza politica, è roba da far tremare le vene dei polsi. Però bisogna tifare Monti, in un certo senso. Specie ora che Monti si è messo contro Monti.
Il premier ha capito da tempo, ma ora ha messo mano alla cosa con un viaggio diplomatico impegnativo, che la radice della questione debito e tassi di interesse sui titoli pubblici italiani espressi in euro, il cappio che ci strozza minacciosamente insieme con gli spagnoli e prossimamente i francesi, si risolve solo con una svolta di politica europea, con qualcosa di diverso e per certi aspetti opposto a quanto deliberato fino a ora dal direttorio franco-tedesco, cui la situazione è in parte sfuggita di mano (e per il resto ciascuno, i tedeschi in particolare, fa i suoi calcoli su un dopo nel quale salvarsi, divenire egemoni, rilanciarsi e prosperare). Ma per adesso le informazioni sul suo tour europeo parlano di una relativa timidezza nell’affrontare il problema. Non è questione di aggiustamenti della governance, o di patti di disciplina emendati dei loro aspetti più sinistri dal punto di vista degli interessi dei paesi indebitati.
Il problema è che in seguito alla crisi internazionale del credito e poi a quella greca, quest’ultima malgovernata nonostante la sua lateralità e gestibilità, il mercato finanziario ha deciso che i grandi debiti pubblici espressi in euro, con i quali aveva tranquillamente convissuto per anni senza lasciarsi affatto spaventare, anzi prosperando sugli interessi percepiti, devono costare di più, molto di più, a chi ne è titolare. Il fatto conduce a un meccanismo di crisi a spirale che pregiudica la liquidità e alla lunga pone problemi di sostenibilità. Le banche private e i debiti pubblici e privati espressi in monete come il dollaro e la sterlina sono stati difesi da analoghe brutali attenzioni, e paesi molto indebitati come gli Usa e la Gran Bretagna pagano interessi del due per cento, anche e soprattutto perché le loro Banche centrali hanno immesso moneta e prestato moneta di nuovo conio al tasso di interesse dello 0,01 per cento. Chiaro? O la Banca centrale europea, oltre alle misure già adottate per fluidificare il credito interbancario e altri elementi di circolazione virtuosa della moneta, si mette in testa di porre la sua forza di prestatore al servizio del debito pubblico espresso in euro oppure la crisi rischia di sprofondarci nell’abisso del crac.
Ha la forza e la convinzione, il presidente del Consiglio, di porre questa questione? E di aggiungere che l’Italia non starà con le mani in mano, e agirà con indipendenza anche se in modo concertato e cooperativo per trovare una soluzione alternativa, anche molto radicale, nel caso questo argine ci si rifiutasse di costruirlo? Siamo al punto, e questo è il dovere repubblicano del capo dell’esecutivo, che è necessario anticipare il rischio di break-up dell’euro con un piano di ristrutturazione e di riscatto dal gravame della moneta indifesa.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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