Davanti alle misure di liberalizzazione proposte dal governo Monti, il Pdl (assumendo che esista qualcosa con questo nome per comodità di argomentazione) si trova in particolare difficoltà. E non è guardando in casa del Pd, dove pure i problemi non mancano, che se ne può trarre qualche consolazione. Quale che sia la portata reale del pacchetto liberalizzazioni (e su questo i dubbi da un punto di vista liberale sono molti) il partito di Angelino Alfano fa fatica a far sentire la sua voce: non è convincente quando dice – come pure sarebbe lecito – “si poteva fare di più”, perché è troppo facile rispondere: “perché non l’avete fatto voi?”. E anche l’ironia dei giornali di centro-destra sul “decreto fantasma” perché scomparso per 24 ore nel tragitto tra palazzo Chigi e il Quirinale, si infrange sul ricordo del “pacchetto sviluppo” rimasto fantasma per più di un anno e poi sepolto per sempre con le dimissioni del governo Berlusconi.
Ma anche le posizioni più scettiche, quelle per intenderci di Fabrizio Cicchitto e altri, che parlano di liberalizzazioni punitive (ma è inevitabile che tutte lo siano almeno un po’), che sembrano inclini a dar ragione alle resistenze di farmacisti, tassisti, autotrasportatori, notai e quant’altro, non arrivano fino e fondo e non prendono forma politica, strette come sono tra la tentazione di accontentare corporazioni ritenute un plausibile bacino elettorale per il centro destra e i sondaggi che testimoniano invece un generale gradimento dei cittadini verso le misure del governo. Senza contare che da un centro-destra, liberale, degno di questo nome ci si aspetterebbe per default un sostegno alla riduzione del peso dello Stato nell’economia e un aumento della concorrenza.
Così al Pdl restano poche cose da dire e tutte senza grande convinzione e senza alcun coordinamento, spesso affidate alla sensibilità dei singoli esponenti e alla loro capacità di accesso mediatico. L’ultima dichiarazione del segretario, Angelino Alfano che si ricordi è di qualche giorno fa e recitava sibillinamente: “la durata del governo Monti dipende dai suoi risultati”. Un po’ poco.
Eppure il terreno di scontro di questa fase politica potrebbe essere ideale per il centro-destra se questo recuperasse un po’ di baldanza e non si facesse troppo intimidire dalle recriminazioni. E’ vero che il governo Berlusconi ha molte inadempienze e promesse non mantenute da farsi perdonare, ma questo non può inibire la sua azione futura e d’altronde quale governo democratico al mondo può vantare l’en plein nella realizzazione del proprio programma? Bastava sentire il discorso sullo Stato dell’Unione di Barack Obama per capire che anche sulle promesse mancate si può costruire un progetto di riscossa.
In fondo il tema delle liberalizzazioni, della lotta alle rendite di posizione, ai privilegi, alla burocrazia; l’impresa di inoculare maggiore concorrenza nel sistema produttivo e di ridurre proporzionalmente il peso della mano pubblica in economia; la semplificazione fiscale, l’idea che le tasse possono essere una cosa necessaria (entro certi limiti) ma non certo “bellissima” come pensava Padoa Schioppa; la convinzione – che andrebbe oggi più che mai rivendicata contro il mantra della sobrietà – che la ricerca del profitto e dell’arricchimento personale sono motori essenziali per la crescita e per il benessere generale di un paese, sono tutti elementi del patrimonio ideale e programmatico del Pdl, molto più di quanto lo siano del Pd.
Non c’è molto tempo da perdere se si vuole che il ritorno in scena della politica veda il Pdl giocare una partita da protagonista piuttosto che da comprimario, e le opportunità per riuscirci non mancano. Qui l’Occidentale ne propone una: una battaglia seria, argomentata e a lunga gittata per la riduzione della spesa pubblica. E’ un’iniziativa che abbiamo chiamato “You Cut”, sulla falsa riga dell’iniziativa presa dal leader della maggioranza repubblicana al Congresso americano Eric Cantor. E’ indirizzata in primo luogo a chi ci legge, perché vorremmo che anche i cittadini si prendessero la responsabilità di dire dove è più giusto tagliare la spesa pubblica e quindi a indicare a quali servizi, sussidi, garanzie, ecc.. sono disposti a rinunciare. Ma si rivolge anche ai legislatori e in particolare al Pdl, perché prenda il meglio delle proposte che usciranno da questo laboratorio e ne faccia materia di iniziativa legislativa o comunque le inserisca nel circuito della propria riflessione politica.
L’idea di fondo è che il perseguimento di per se sano e anche legittimo del pareggio di bilancio si trasforma in una follia suicida in presenza di una spesa pubblica in continua crescita e di un Pil in recessione; vuol dire in sostanza finanziare il pareggio con una pressione fiscale in progressione geometrica fino al totale strangolamento del paese. Pareggiare sprechi e mancata crescita a forza di tasse è esattamente quello che porterà l’Italia verso quel fallimento che si dice di voler evitare. Allora bisogna cominciare a tagliare; lo Stato deve spendere meno o almeno interrompere la crescita inerziale della sua spesa pubblica che procede ininterrotta da decenni. Non è una cosa facile. La prima e più diffusa reazione è quella che dice: tagliare gli sprechi? Sacrosanto, ma quali sono gli sprechi, dove si annidano? Questo è il primo problema. Nessun governo ha mai affrontato seriamente la questione di una “spending review” che mostri in dettaglio dove incidere col bisturi salvando le parti sane della spesa. Così per anni si è andati avanti con i “tagli lineari” tremontiani, gli unici possibili nelle condizioni date. Il secondo problema è che anche quando si individuano con una certa accuratezza i settori da tagliare nessuno ci sta a riconoscersi come tale: scattano quindi le controffensive lobbistiche, si muovono i sindacati, si raccolgono le firme dei cittadini, si occupano le strade, si fa la fila dal presidente della Repubblica che alla fine una parolina di incoraggiamento non la nega a nessuno. Così in genere si fa marcia in dietro si lascia tutto com’è.
Provate a dire che un certo aeroporto è uno spreco di danaro pubblico, o che quel particolare ospedale non serve e butta soldi, o che quella determinata sede giudiziaria potrebbe essere chiusa senza danno e con grande risparmio, o quella sede locale della Banca d’Italia, o quell’Università, o quell’ente, o quel teatro lirico, o quel finanziamento al cinema. Avrete gli artisti sui tetti, i professori in piedi sui banchi, i magistrati in sciopero, i registi al Quirinale, i cantanti lirici al Tg3. Avrete la sinistra, i suoi giornali, i suoi massimi esponenti che vi diranno che la cultura non si tocca, che la ricerca è essenziale, che l’Università è sacra, che i diritti acquisiti, che, che…
La verità è che era tutto vero (anche se non sempre) ma che oggi non lo è più: davanti al rischio di un default alla greca niente in teoria è più intoccabile e ogni cosa che si vuole salvare è un lusso che possiamo permetterci solo a spese di qualcos’altro. Per queste scelte però un governo tecnico è l’ultima cosa che serve, qui entra invece in gioco la politica e nella sua più alta e basilare espressione: la responsabilità di gestire risorse limitate salvaguardando l’interesse generale e rispondendo di quelli particolari che vengono sacrificati.
Per questo ci sentiamo di proporre a quel po’ di politica che ancora si vede nel campo liberale di avanzare idee e progetti in questa direzione, ma anche di chiamare in causa chi ci legge per indirizzare le proposte e le scelte che dovranno essere prese. Collegatevi a You Cut, e scrivete un vostro articolo (non un semplice commento), il più argomentato possibile, meglio se con dati e cifre alla mano e noi lo faremo confluire in un dossier da consegnare ai gruppi parlamentari del Pdl in vista di una auspicabile iniziativa legislativa. Buon lavoro e buon taglio!
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