martedì 23 novembre 2010

La scuola non statale non è una questione di classe. Ancora una volta la sinistra si pone contro la scuola paritaria in modo del tutto irragionevole

4548838127_bef2b127d9_zIl verdetto della sinistra è senza appello. Il governo del rigore, che strozza la scuola pubblica, poi spende 245 milioni per la scuola non statale: una scelta che viene accusata di contribuire alla «demolizione dell'istruzione pubblica». In politica il gioco delle parti è la regola, ma la protesta delle forze di minoranza questa volta è davvero irragionevole.

Lo è perché parte da un dato falso: l'idea che la scuola non statale sia appunto privata, cioè non-pubblica, che separa, divide. Bugie. Non è scuola d'élite, terra di scorribande dei rampolli più viziati dei nostri tempi, cui fanno la guardia sacerdoti compiacenti, lieti di barattare il dovere di educare col piacere di tenere a balia la nuova classe dirigente.
È un pregiudizio classista, nel senso di lotta di classe. Se il socialismo più retrivo e stantio è stato sconfitto anche nell'ambito delle relazioni di lavoro, coi sindacati che finalmente capiscono che gli interessi di datori di lavoro e lavoratori sono più allineati di quanto non sembrasse ai loro padri, certi riflessi pavloviani sopravvivono ormai solo nella scuola. Dove la polemica contro il privato si salda con certo laicismo da tre soldi.

Diciamola tutta: uno degli errori più gravi, nel lungo percorso politico della attuale maggioranza è stato il non riuscire, né nella legislatura del 2001 né in questa, a introdurre il buono-scuola. Esso ha bussato più volte alla porta della politica. Già negli anni 80, quando lo propose il liberale Antonio Martino, ma seppe farsene promotore anche Claudio Martelli. Poi a metà anni 90, quando fu oggetto addirittura di alcune manifestazioni di piazza. Poi nella Lombardia di Roberto Formigoni, dove il voucher almeno per le famiglie meno abbienti, è una realtà.

Perché non introdurre il voucher è stato un errore? Perché in quel modo si sarebbe reso finalmente trasparente e meritocratico il finanziamento di tutta la scuola pubblica: statale e non statale. Le scuole parificate, al pari degli ospedali accreditati, assolvono infatti un puro servizio pubblico, che come tale è governato e regolato nei suoi aspetti più salienti. La differenza fra scuole paritarie e scuole pubbliche è che queste ultime sono finanziate solo ed esclusivamente dalle imposte, mentre le prime beneficiano di alcuni contributi statali ma soprattutto delle rette volontariamente versate dalle famiglie. I contributi statali servono a calmierare quelle rette proprio perché le famiglie già pagano le tasse. Anziché pagare due volte per uno stesso servizio, si cerca insomma di fare pagare loro solo una volta e mezzo.
Non è il sistema ottimale perché il finanziamento della scuola dovrebbe basarsi sulla capacità di ciascun istituto di attrarre allievi, di convincere le famiglie della bontà del servizio offerto. Ma, come dire, piuttosto che niente meglio piuttosto. E’ preferibile un'ingiustizia a tre quarti che un'ingiustizia tutta intera.
Meno Stato, più società: nella scuola, questo significa riconoscere il valore dell'istruzione, che deve essere sostenuto dal pubblico, in qualsiasi istituzione che sa educare. Non è solamente una questione di pluralismo. Si tratta di riconoscere il primato della società nell'educare se stessa. Anche perché il monopolio genera sempre inefficienza e diseconomia. Nel maxiemendamento della legge di stabilità aumenta il bonus sulla produttività con un risparmio annuo fino a 1.680 euro. Un saggio esempio per colmare il gap della competitività che con la leva del fisco può incidere direttamente e che deve essere ampliata al fine di dare slancio all'economia.

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