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martedì 27 marzo 2012

Il tremendo e ferreo potere di veto della CGIL

prova di forzaGli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto equivalga a mettere in discussione la democrazia.

Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione, la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne toccato, il governo uscì sconfitto.

In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo pochi mesi fa.

Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose.

Angelo Panebianco
Corriere della Sera del 26 marzo 2012

martedì 6 settembre 2011

Un ennesimo sciopero politico della CGIL contro il Governo. Prove di grecizzazione dell’Italia

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Tutti sanno che la disciplina dei licenziamenti italiana è una delle strettoie più pesanti, che rendendo difficilissimo per le imprese ridurre il personale assunto a tempo indeterminato le scoraggia dal farlo anche quando ne avrebbero bisogno. Da anni i riformisti di ogni parte indicano in questo blocco dei licenziamenti la causa del rallentamento delle assunzioni e propongono soluzioni alternative, basate sull’aumento dell’indennità di licenziamento. Ora che il governo, in una situazione eccezionale, ha deciso di agire su questa materia, lasciando peraltro alla contrattazione aziendale, e quindi alle rappresentanze sindacali di fabbrica, il compito di decidere nel merito, si fatica a sentire l’eco delle posizioni riformiste.

Eppure la riforma proposta è strutturale, rispettosa del ruolo contrattuale dei sindacati e delle loro controparti aziendali, ed esclude i casi di maggiore impatto sociale e famigliare. Nel momento in cui la Cgil, tetragona a ogni accordo, scende in piazza in nome di un obiettivo puramente protestatario, è lecito attendersi dai riformisti di sinistra, in particolare da quelli del Partito democratico, un’assunzione di responsabilità. Alcuni già nelle settimane scorse avevano contestato lo sciopero solitario contestandone la tempestività e l’efficacia. Ora il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, che pure in un passato non remoto fu esponente del riformismo, ritorna all’ovile e annuncia la sua adesione alla manifestazione indetta da Susanna Camusso. Altri, che non si sono pentiti tanto rapidamente, non aderiscono, il che è già importante, ma darebbero un contributo culturale più significativo se uscissero dall’equivoco bersaniano secondo cui chiunque attacca il governo, anche se su posizioni antagonistiche, va sostenuto.

Il sindaco di Torino, Piero Fassino, che si era schierato limpidamente con Sergio Marchionne e contro la Cgil nella vertenza aziendale, ora sostiene che la materia del licenziamento dovrebbe essere affidata alla contrattazione tra le parti. Critica il metodo per non entrare nel merito, il che è già qualcosa di questi tempi, ma lascia una sensazione di incompiutezza e di tatticismo. Si possono proporre altre modalità, ma a patto di separarsi dal fronte del rifiuto, che non accetta mai, oggi come in passato, di discutere di nessuna riforma del mercato del lavoro. Se dalle file dei democratici non verranno voci dissonanti e chiare, sarà lecito pensare che in quel partito si può dire di tutto, ma all’atto pratico si è tutt’ora succubi di una specie di cinghia di trasmissione al contrario, che va dalla Cgil al Pd. Proprio mentre si creano le condizioni numeriche per un’alternativa, affossarla dal punto di vista dell’autonomia programmatica sarebbe davvero un errore.